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I social media bannano gli account di Donald Trump. Ma in Europa ci si comincia a chiedere come poter regolamentare questi giganti della comunicazione politica

Donald Trump è stato cancellato dai social, anche da quelli che continuavano a dargli spazio, ma che sono stati espulsi tout court dai due app store maggiori, quelli di Apple e di Android, e dal cloud di Amazon.

Prima di proseguire a esaminare quanto è accaduto in questi giorni facciamo chiarezza eliminando una della variabili dal tavolo: Trump è un sobillatore di folle, un pirata aggressivo, e si è meritato tutto questo. E forse di più. Ma la cosa non sposta di una virgola il fatto che il Presidente (uscente ma ancora in carica) è stato oggetto di un’azione mirata a silenziarlo.

Addirittura Twitter, che aveva già bannato l’account RealDonaldTrump, ha poi cancellato anche il post scritto – sempre da Trump – sull’account ufficiale della Casa Bianca: POTUS (President of the United States), con la spiegazione, ai limiti dell’assurdo, che “era un tentativo di accedere con un altro nome da parte di un persona bannata”.

Lo stesso era accaduto anche su altri social media, su Facebook e su Instagram, ma quanto accaduto su Twitter – il ban a un account da 88 milioni di follower – dava maggior evidenza alla cosa, oltre al fatto di essere una condanna permanente, non ‘a tempo’ come quella sugli altri social.

La discussione, che infiamma il web da molte ore, ora sta coinvolgendo anche le personalità politiche dei Paesi UE, primi fra tutti Francia e Germania. La decisione del colosso Usa di bannare il presidente uscente è arrivata a seguito delle accuse, ricorrenti, secondo cui Trump avesse incitato indirettamente i suoi sostenitori all’azione.

Il portavoce di Angela Merkel, Steffen Seibert, in una conferenza stampa a Berlino ha dichiarato che la cancelliera tedesca è dubbiosa a proposito di un blocco totale, sottolineando che la cancelliera “ritiene problematico“ il blocco completo dell’account Twitter di Donald Trump. “È possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore, e non per decisione di un management aziendale”, ha concluso il portavoce.

Decisamente più netta la presa di posizione francese: “Quello che mi sconvolge è che sia Twitter a chiudere perché la regolamentazione dei giganti digitali non può essere fatta dalla stessa oligarchia digitale”, ha dichiarato il Ministro francese dell’Economia, Bruno Le Maire, che ha ulteriormente evidenziato il fatto che l’oligarchia digitale sia “una delle minacce che gravano su Stati e democrazie”.

Anche negli ambienti della UE non mancano perplessità. Il commissario per il Mercato interno, Thierry Breton, ha parlato della sospensione dell’account di Trump come una sorta di 11 settembre dello spazio informativo: “Proprio come l’11 settembre ha segnato un cambio di paradigma per il mondo, si sarà un ‘prima’ e un ‘dopo’ l’8 gennaio 2021. Questi eventi dimostrano che non possiamo più stare a guardare e fare affidamento solo sulla buona volontà delle piattaforme, ma dobbiamo stabilire le regole del gioco: diritti, obblighi e garanzie per tutti che siano chiaramente definiti e applicati”.

C’è da dire che, almeno in prima evidenza, se c’è stato un tentativo di ‘scaricare’ Trump per ingraziarsi i poteri governativi che contano a livello globale, questo si potrebbe dire riuscito solo in parte. Non sorprende che personalità come Nancy Pelosi, la speaker democratica del Congresso, o Alexandria Ocaso-Cortez abbiano applaudito immediatamente alla cacciata del fellone dai social, ma le reazioni, come dimostra anche la vicenda europea, possono anche essere più meditate.

Twitter, o Facebook, o Instagram sono società private, e quando ci si iscrive – e l’ha fatto di sicuro anche Donald Trump o qualcuno per lui – si accettano una serie di regole, violando le quali si può essere espulsi, come da un club di bridge londinese. Ma allo stesso tempo queste società rappresentano anche il modo più efficace di farsi ascoltare: essere tagliato fuori dal loro utilizzo significa mettere la mordacchia alla voce parlante, giuste o sbagliate che siano le parole pronunciate. E qui si arriva al primo punto dolente: chi ha deciso che Trump non potesse parlare, mentre, per esempio, l’ayatollah Ali Khamenei, leader supremo iraniano, ha potuto ‘straparlare’ (opinione di chi scrive, ovviamente) contro Israele fino a ieri, quando un suo post è stato ‘cancellato’ perché diffidava dall’utilizzo dei vaccini antiCovid occidentali poiché ‘contaminati’?

Domani lo stesso potrebbe accadere per chiunque: per il futuro Gandhi o il futuro Mobutu, per il prossimo Sabin o il prossimo Duvalier. Perché si tratta di società private, ma esenti da qualsiasi controllo ex-post: prendono le loro decisioni in camera caritatis, scudate dalla Sezione 230 del Communications Decency Act che recita “nessun fornitore e nessun utilizzatore di servizi Internet può essere considerato responsabile, come editore o autore, di una qualsiasi informazione fornita da terzi”. Una norma del 1996, in termini informatici si tratta di parecchie Ere fa.

Non esistevano neppure i social all’epoca, e oggi sono la formula per comunicare più diffusa. E la bolla di opinioni concordanti che vi si veicola, complici gli algoritmi, accresce enormemente la loro capacità di convincimento. Ma i social sono “una compagnia tecnologica. L’attività principale è avere ingegneri che scrivono codici e costruiscono prodotti per altre persone”, come rispose Zuckerberg al deputato dell’Oregon che lo interrogava al Congresso sull’argomento.

Ed è proprio questo grande potere senza responsabilità che dovrebbe essere affrontato un volta per tutte, per chiarire limiti e capacità di azione circoscritta, non per ragionare in termini di Executive Orden contro la Section 230, come aveva fatto Trump a maggio del 2020, ma, come stanno sperabilmente accingendosi a fare i Paesi europei, per affrontare il gigantismo di soggetti cresciuti senza regole e ora forti abbastanza da rivaleggiare con le più grandi nazioni.