Youmark

Bruno Pellegrini, ex Userfarm: brand sempre più media company, da promotori di sé a riferimenti culturali. E se tutto ciò diventa ‘core’, non si esternalizza. Agenzie meditate, non resistete al crowd e pensate al content creation. Il maggior valore, comunque, non è più nella comunicazione

Fresco dalle dimissioni da Userfarm, presentate a seguito della vendita di tutte le relative attività italiane ed estere, Bruno Pellegrini, l’imprenditore italiano che ha saputo anticipare e credere nell’onda ‘crowd’ prima diventasse ‘perfetta’, ne parla con youmark.

Vogliamo sapere tutto sulla storia di Userfarm, ce la racconti?

“L’idea nasce nel lontano 2004, ancor prima dell’ingresso di YouTube in Italia, quando avevo appena lanciato il canale NessunoTV (poi venduto e diventato RedTV) iniziando a trasmettere interi programmi creati dal pubblico attraverso l’invio dei loro video. Da lì, anche grazie all’esperienza del primo documentario collettivo (Le Mie Elezioni, coordinato da Stefano Mordini), ho iniziato a intuire le enormi potenzialità del ‘social business’ e nello specifico di quello che sarebbe poi stato chiamato ‘crowdsourcing’ o ‘co-creation’ o ‘sharing economy’. Nel frattempo un altro mega global trend stava investendo il mondo della comunicazione, quello del video advertising. Userfarm li coglie entrambi, offrendo ai brand (Userfarm lavora anche con broadcaster e publisher) la possibilità di realizzare video in maniera più efficiente rispetto al modello tradizionale dell’agenzia, ovvero rivolgendosi direttamente ai migliori filmmakers su piazza utilizzando il nuovo modello organizzativo del crowdsourcing. Userfarm nasce nel 2009 come spin off di TheBlogTV (venduta a Digitouch nel 2014) e viene sostenuta dagli stessi Venture Capitals, Innogest e TlCom. Dal 2011, dopo un periodo di test, inizia la crescita del business che valica i confini nazionali e si afferma anche in Spagna, Francia e nella difficile Inghilterra. I migliori brand del mondo – come Vodafone, Barilla, Ferrero, Nestlé, Fiat, Procter&Gamble, Ford – iniziano ad affidarsi a Userfarm per la creazione dei loro contenuti video con enorme soddisfazioni e qualche preoccupazione da parte delle agenzie tradizionali incapaci di pareggiare un rapporto qualità/costo talmente vantaggioso. Infine, al termine di un 2015 di forte crescita (con un fatturato medio mensile che supera costantemente i 300.000 euro) ma anche molto faticoso per via della fallita partnership con gli americani di Poptent, i soci di Userfarm accettano una proposta di acquisto, per ora ancora top secret, ma di cui sarà a breve annunciato il dettaglio, e cedono tutte le attività, italiane ed estere”.

Suona quasi come una sconfitta, significa che non sei soddisfatto di come sono andate le cose?

“Non posso non essere soddisfatto di aver immaginato prima di tutti un modello di business e uno scenario della comunicazione così innovativo e ‘disruptive’, di aver creato dal nulla una società divenuta leader in Europa e di aver fatto crescere e organizzato un team formidabile composto da un mix unico di competenza e passione. In Userfarm oggi lavorano le migliori risorse nel campo del crowdsourcing e del content marketing, sicuramente in Italia e probabilmente anche in Europa. E sono felice che il progetto comunque continui anche se in forma diversa da quanto avrei immaginato e sperato, nel senso che secondo me l’acquirente è stato bravissimo e molto lungimirante ad assicurarsi una miniera d’oro prima degli altri ed è senza dubbio il partner giusto per portare ‘a regime’ il business ma, personalmente, speravo che Userfarm potesse continuare a crescere con le proprie gambe e in maniera totalmente indipendente ancora per qualche anno. Questo gap tra le ambizioni del progetto e le mie, oltre all’occasione di monetizzare finalmente quanto fatto negli ultimi anni, mi ha portato a rassegnare le mie dimissioni subito dopo aver concluso il deal. In ogni caso, è un ottimo momento per cambiare, in giro ci sono tante opportunità di creare valore. Non solo nel settore della comunicazione”.

Tante opportunità, sicuro. Di creare valore, un po’ meno, nel senso che la nuova era pare aver ridotto i margini di redditività, specie riguardo la comunicazione. Sbagliamo? Quali sono allora gli scenari cui ti riferisci? Partiamo proprio dalla comunicazione.

“Credo che ancora per i prossimi cinque anni la dinamica più interessante sarà quella che vedrà i brand organizzarsi per diventare a tutti gli effetti delle media company. Non si tratta solo di ‘content marketing’ – come fosse una opzione tra le tante – ma di recuperare il proprio DNA di marca e capire che oggi fare comunicazione per un brand è molto diverso da qualche anno fa. Ora che sono cadute (quasi) tutte le barriere per la produzione di contenuti da parte delle imprese, la marca si evolve e così il marketing. Da promotore di se stesso, il brand diventa riferimento editoriale e culturale per il proprio pubblico.

Le agenzie di advertising, almeno quelle che vogliono davvero il bene dei propri clienti, dovrebbero cercare di agevolare questo passaggio e non rallentarlo. Ragionare come una media company è molto differente dal ragionare in termini di campagne e spot e il marketing del brand non potrà più esternalizzare con leggerezza la guida di questa attività trattandosi ormai evidentemente del suo core. Nasceranno reparti interni che definiranno e coordineranno tutte le attività di content creation di un brand (o un’impresa), come vere e proprie media house o content factory (vd Red Bull Media House come benchmark) dotate di sistemi di analytics e content creation all’avanguardia. In questo scenario emergeranno sicuramente delle agenzie / società specializzate che potranno affermarsi come partner importanti dei nuovi direttori dei contenuti di marca. Piccole boutique di creativi e filmmakers, piattaforme di content crowdsourcing, gruppi di influencers, network di video seeding, sistemi di programmatic, piattaforme di publishing e content management ma anche nuove figure di consulenti che potranno coadiuvare il marketing nella definizione della strategia e del palinsesto e proveranno non tanto dalle direzioni creative dell’advertising tradizionale quanto dalle direzioni di rete dei canali televisivi e delle principali testate editoriali. Se fossi alla guida di una grande agenzia non perderei tempo a resistere a questo trend ma creerei rapidamente un reparto / spin off dedicato alla content creation formato prevalentemente da risorse esterne”.

E al di fuori del settore della comunicazione?

“A  essere sincero, credo proprio che le maggiori opportunità e potenzialità di creare valore attraverso internet e il digitale non risiedano più dentro, ma fuori dal settore della comunicazione. Dopo una prima fase, assolutamente prevedibile e naturale, dove internet e il digitale hanno rivoluzionato l’intrattenimento mediato e mediatico e con esso l’advertising, siamo entrati in una fase in cui la portata rivoluzionaria si può finalmente disperdere laddove il valore da creare è davvero concreto e reale. Grazie ad internet e al digitale oggi si possono ridisegnare i processi di creazione del valore in quasi tutti i settori industriali dal design all’agricoltura, dalla moda alla farmaceutica, dall’energia ai servizi. L’Open Innovation ha dimostrato di rendere enormemente più efficienti i processi di ricerca e sviluppo, migliorando il time to market e il success rate di nuovi prodotti. Nel reparto marketing, come abbiamo detto, si stanno ridefinendo i processi interni ed esterni anche in chiave di partecipazione del consumatore (consumer co-creation). Attraverso i Big Data possiamo monitorare in ogni dettaglio il customer journey e misurare il ritorno di ogni attività. I canali di vendita, come quelli di comunicazione, si sono aperti e si può oggi presidiarli in maniera diretta anche come banco di prova per nuove linee di prodotti. La logistica può essere ripensata ex novo, basti guardare a cosa fa Amazon. L’organizzazione del lavoro non può fare a meno di essere rivista in chiave di network, con l’impresa che diventa piattaforma aperta di scambio e condivisione tra le risorse interne e quelle esterne. La sharing economy consente di creare valore attivando risorse fino ad oggi nascoste e sotto-impiegate. La portata di questo cambiamento è talmente grande e profonda che potrebbe essere in grado di rilanciare l’economia di un paese, figuriamoci quella di un settore industriale o di una singola impresa”.