Mentre qui si disquisisce di creatività, remunerazione, posizionamento, tecnologia e dati, voi vi piazzate a New York, aprite una boutique super lusso e spaccate. Ne cito una, la t-shirt, da un tot di migliaia e migliaia di dollari, per gli appartamenti Diesel. Cosa vi frulla per la testa?
“La scelta di buttarci in questa avventura è stata tutta dettata dalle emozioni. Dopo aver lavorato per tanti anni in grandi agenzie, abbiamo deciso di realizzare un sogno che avevamo da sempre e abbiamo aperto SMALL. E lo abbiamo fatto nella città dell’advertising per eccellenza. New York è una città inarrestabile e piena di stimoli e dovunque andiamo troviamo ogni giorno nuove ispirazioni e nuove idee. Prima di iniziare quest’avventura, non abbiamo redatto un business plan come ci suggerivano tutti di fare. E non abbiamo mai risposto alla fatidica domanda ‘dove volete essere fra 5 anni?’ Anche ora non sappiamo dove vogliamo essere fra 5 anni: sappiamo solo dove vogliamo essere adesso. Siamo testardamente convinti che quando ti liberi di tutti i fronzoli e pensi solo ad offrire delle idee di qualità che facciano parlare, allora le cose funzioneranno. E per il momento, le cose stanno davvero andando così”.
Come vedete il futuro di questa industry (lo so il termine è odioso) oggi, che sembra vacilli (Corona virus, oscar a Parasite, ecc) quel concetto di globalizzazione tanto efficiente e amato solo fino a ieri e dove la concorrenza tra grandi e piccole sigle è aperta?
“I clienti, soprattutto qui in America, tendono sempre di più a prediligere rapporti a progetto, cercando di evitare contratti lunghi e limitanti. Le grandi agenzie sono molto lente ad adattarsi alla nuova realtà e stanno soffrendo. Questo è il momento delle piccole agenzie ed è con questa consapevolezza che abbiamo creato SMALL. Il nostro modello è plasmato sulla realtà attuale: costruiamo ogni volta un team ad hoc per il progetto che ci viene affidato. Insomma, lavoriamo un po’ come una casa di produzione. Questo ci permette di essere snelli e di evitare le spese fisse, in un momento in cui i budget si stanno riducendo sempre più. Noi offriamo ai nostri clienti esattamente quello per cui ci pagano. Perché, parliamoci chiaro, ai clienti non piace pagare per il tuo ufficio affacciato su Central Park o per lo stipendio di un CEO globale che non incontreranno mai: ai clienti piace pagare per le tue idee. In tutto questo, a nostro modo, pur essendo basati a New York, anche noi siamo globali. Lavoriamo per clienti sia americani che europei e abbiamo collaboratori in tutto il mondo. Con i mezzi di oggi puoi davvero essere ovunque senza spostarti di un centimetro”.
L’Italia che comunica vista da lì. cinque righe per raccontarcela?
“Dopo 5 anni che lavoriamo a New York, possiamo affermare con sicurezza che i creativi italiani non hanno niente da invidiare agli americani. E dall’Italia spesso e volentieri escono progetti di altissimo livello. Ovviamente, tra i due mercati non c’è paragone, per motivi di budget e per motivi di potenza culturale. Quando esce uno spot al Super Bowl, l’impatto non è lontanamente paragonabile a quello che può avere, ad esempio, uno spot che esce durante il festival di Sanremo. Noi italiani dobbiamo solo imparare a ragionare in maniera più ampia ed internazionale e a essere pronti a rispondere nel modo giusto quando arriva l’occasione per fare qualcosa di buono”.
C’è chi dice che l’Italian Way (avete già capito chi è il chi?) oggi vince. d’accordo?
“Quando siamo arrivati a New York, 5 anni fa, iniziavamo ogni presentazione dicendo: “Scusate per il fortissimo accento italiano”. E puntualmente i clienti rispondevano “State scherzando? Con quell’accento potreste vendere qualunque idea.” L’Italia all’estero è vista come un grande paese, pieno di talenti, cultura e fascino. Se solo capissimo veramente il valore che abbiamo e lo sfruttassimo appieno, per l’Italian Way davvero non ci sarebbero limiti”.
I grandi network: da gruppi di agenzie a piattaforme. Miopia o business?
“Le agenzie che fanno parte dei grandi gruppi, purtroppo, stanno tutte perdendo la loro unicità. Ormai, ai clienti vengono proposte piattaforme omnicomprensive dove si mischiano pezzi di agenzie diverse e si cerca di offrire tutto e di più. Noi invece continuiamo a credere che un’agenzia debba essere scelta per il proprio stile, per la propria eccezionalità. Che debba essere scelta per quello che può darti, non per quanto può darti”.
Sostenibilità, ambientale e sociale, la sfida creativa che ancora chiede di essere vinta, come?
“Sempre più brand, soprattutto qui in America, stanno sposando il purpose driven marketing, ovvero quell’approccio al marketing per cui un brand non si limita ad elencare le qualità dei propri prodotti, ma promuove valori più profondi e prende posizione su questioni importanti. Troppo spesso, però, certi brand scelgono questo approccio senza essere veramente impegnati a favore di una causa. Puoi parlare di quanto sia importante salvaguardare il pianeta, ad esempio, ma se poi la tua azienda non fa niente di concreto al riguardo, quella comunicazione è inutile e spesso controproducente. Il nostro ruolo è quello di comunicare nel miglior modo possibile ciò che un’azienda già fa. Ma se un’azienda non è impegnata veramente, a nostro avviso, conviene limitarsi a parlare dei prodotti”.
I vostri prossimi progetti?
“Come ogni anno stiamo lavorando alla campagna per Il World Down Syndrome Day assieme a CoorDown. E’ un appuntamento a cui teniamo tantissimo. Stiamo lavorando a un paio di progetti segreti di cui speriamo di poter parlare presto. E siamo in contatto con alcuni clienti italiani che vogliono fare comunicazione negli Stati Uniti. Pensiamo infatti di essere un’opzione interessante per tutti quei marchi italiani che vogliono comunicare qui. Ormai conosciamo il mercato e i gusti degli americani in termini di advertising. Ma allo stesso tempo siamo italiani e siamo in grado di capire i marchi del nostro paese e rispettarne il DNA meglio di un qualunque creativo americano”.