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Il boicottaggio degli investitori pubblicitari colpisce i social media per i ‘contenuti d’odio’. La brand safety come discrimine

La questione è più complicata di quello che può apparire a prima vista, e riguarda il diffondersi della sfiducia verso i social media (o meglio alcuni social media), il loro ruolo in un’internet libera come la conosciamo oggi, le reazioni non di rado scomposte del Presidente USA Donald Trump e gli atteggiamenti assunti dagli investitori pubblicitari, che sono poi coloro che in ultima istanza pagano perché questo meccanismo vada avanti.

L’inizio della cosa, in punta di diritto, è piuttosto chiara, ma poi è stata travolta dal movimento Black Lives Matter e dalle sue rivendicazioni, che hanno identificato in Facebook il social media ‘che non faceva abbastanza’ per depennare i cosiddetti ‘contenuti d’odio’ dalla rete. Il che ha scatenato le reazioni degli investitori pubblicitari nei confronti del social media e, per assonanza, di tutti i suoi omologhi.

Se torniamo alla accusa scatenante, infatti, vi è la nota di Twitter a due post di Trump sul voto postale, bollato come ‘truffaldino’. Twitter si limitò a mettere in evidenza, a corredo dei post, alcuni articoli che smentivano tale affermazione. A questo il Presidente replicò con un ordine esecutivo che sospendeva il privilegio per tutti i social media di non rispondere in tribunale della veridicità delle affermazioni pubblicate da terzi se si fossero comportati da editori. Terreno scivoloso, quest’ultimo: Twitter non aveva affermato alcunché, si era limitato a riportare articoli giornalistiche che confutavano quanto dichiarato da Trump. Ma d’altro canto questo fatto poteva essere interpretato come un superamento della neutralità che garantiva al social l’immunità giudiziaria. Ma la cosa, sulla spinta dal movimento BLM ma non solo, superò presto il caso specifico, come si è visto anche nel caso dell’autrice della saga di Harry Potter, J. K. Rowlings, femminista, accusata di transfobia e oggetto di un vero e proprio shitstorm per aver parlato, in un post, di ‘persone con le mestruazioni’, riferendosi alle donne.

Non sorprende quindi che in un’atmosfera tanto infuocata, sia iniziata una presa di distanza degli investitori pubblicitari: loro sono interessati ciascuno al proprio business, e ‘anche i repubblicani comprano scarpe’, come rispose Michael Jordan a chi gli chiedeva una più decisa presa di posizione su un tema sensibile.

Così ecco CocaCola che sospende per un mese gli investimenti previsti per la pubblicità digitale sulle piattaforme dei social media a livello globale, a partire dall’1 luglio 2020. Non solo Facebook e Instagram: il boicottaggio colpirà prossimamente anche Twitter, YouTube e altre piattaforme.

“Dedicheremo del tempo a rivalutare i nostri standard e le nostre politiche pubblicitarie”, si legge in una nota del CEO James Quincey, “per determinare cosa dovremmo aspettarci dai social media per la lotta all’odio, violenza e contenuti inappropriati. Faremo sapere che ci aspettiamo una maggiore responsabilità, azione e trasparenza da social network”.

Posizione analoga è stata assunta da altri grandi spender sui social, quali Starbucks (“Crediamo che si debba fare di più per creare comunità online accoglienti e inclusive”), Levi Strauss, Uniliver, Honda, Verizon. Ancora, The North Face, Patagonia, Mozilla, e altre decine di aziende. Nella grande maggioranza dei casi, il boicottaggio è esteso a tutti social media, con qualche incertezza su YouTube, non solo a quelli del Gruppo di Zuckerberg, e spesso si presta ad ambiguità tra le decisioni operative assunte a livello centrale e quelle della filiali regionali, ma il colpo è indubbiamente forte. Il boicottaggio ‘Stop Hate for Profit’, lanciato da associazioni statunitensi per i diritti civili, sta crescendo a livello internazionale, e Zuckerberg, maggiormente colpito dai mancati introiti su Facebook e Instagram per una stima di 8 miliardi di dollari, ha annunciato una serie di modifiche alle politiche che, sebbene non esplicitamente in risposta al boicottaggio, sembrano progettate per cercare di affrontare molte delle critiche a cui la società deve rispondere riguardo alla sua mancanza di moderazione di minacce violente, incitamento all’odio, e disinformazione.

Ma questo riporta al quesito iniziale: i social media sono editori? Rispondono di quello che pubblicano come farebbe una testata giornalistica? E poi chi può stabilire – al di là dei casi più evidenti – che cos’è una fake news? Siamo davvero pronti ad affidare a una società privata questo immenso potere? Tutte domande che meriterebbero risposte più articolate rispetto agli slogan di ‘Stop Hate for Profit’ e di BLM. E che cosa bisognerebbe fare quando certe notizie non appaiono proprio, come quelle dei riot di Hong Kong sul social cinese TikTok, che continua a essere in testa alle classifiche di download in tutto il mondo?
Tranne in India, dove è stato bandito perché visto – insieme ad altre 57 app del Dragone – come emanazione di uno Stato con cui si è virtualmente in guerra, per via degli scontri tra forze armate indiane e cinesi sulle vette himalayane.