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Il futuro dell’Intelligenza Artificiale: stabilire una connessione tra il potenziamento tecnologico e l’uomo. Oltre il machine learning e il problem solving

L’Intelligenza Artificiale fa ormai parte della nostra vita quotidiana ed è utilizzata da una pluralità di soggetti: tutti conoscono le auto senza guidatore o gli assistenti vocali come Siri o Alexa, l’Assistant di Google o Cortana, che però si è limitata, dopo il lancio consumer, al B2B.

Il mercato dell’Artificial Intelligence, tuttavia, è ancora agli albori in Italia, con una spesa per lo sviluppo di algoritmi di intelligenza artificiale di appena 85 milioni di euro nel 2018. In prospettiva però le opportunità appaiono molto più promettenti: al mercato dei progetti vanno affiancati infatti gli assistenti vocali intelligenti (appena introdotti eppure già capaci di generare un mercato di 60 milioni di euro, e che in futuro potranno veicolare nuovi servizi e applicazioni) nonché i robot autonomi e collaborativi usati in ambito industriale.

Questi dati si trovano nella ricerca dell’Osservatorio Artificial Intelligence della School of Management del Politecnico di Milano, ma non sono gli unici disponibili. Anche l’AI Lab dello Iulm asserisce che, in Italia, più della metà delle aziende investe in IA una quota inferiore al 5% del budget destinato alle attività di comunicazione e marketing (anche se l’80% indica che nei prossimi anni questa percentuale sarà destinata a crescere). Le ragioni risalgono a una scarsa comprensione di quali possano essere le applicazioni di IA o a una visione molto scettica delle loro effettive potenzialità. Oltre, ovviamente, a una cronica carenza di risorse: economiche, tecnologiche e professionali.

Ma prima ancora di addentrarci a scoprire quali siano queste motivazioni, va chiarito che non esiste una definizione univoca di IA e le interpretazioni possono variare in funzione della focalizzazione: che può concentrasi sui processi interni di ragionamento, oppure sul comportamento esterno dei sistemi.

Partendo da questa premessa, si possono definire due differenti tipi di intelligenza artificiale, quella debole e quella forte. La prima, denominata “weak AI” racchiude al suo interno sistemi in grado di simulare alcune funzionalità cognitive dell’uomo senza tuttavia raggiungerne le capacità intellettuali; mentre la seconda, battezzata “strong AI” include i sistemi in grado di diventare sapienti (o addirittura coscienti di sé). In quest’ambito ci si spinge a ritenere che un giorno le macchine avranno una intelligenza propria (non emuleranno quindi quella dell’uomo), autonoma e superiore a quella degli esseri umani.
Ma, tralasciando queste visioni fantascientifiche, i sistemi attualmente in uso rientrano dell’ambito dell’intelligenza debole, in costante sviluppo.

Sul piano pratico, però, la imprese italiane dimostrano di avere ancora una visione confusa delle opportunità dell’Artificial Intelligence: la maggioranza, il 58%, la associa a una tecnologia capace di replicare completamente la mente umana, il 35% a tecniche come il Machine Learning, il 31% ai soli assistenti virtuali, mentre solo il 14% ha compreso che l’AI mira a replicare specifiche capacità tipiche dell’essere umano, che è poi la visione prevalente nella comunità scientifica.
Può sembrare un livello tecnologico futuristico ma nella realtà questi sono sistemi già in uso nel riconoscimento di pattern, nel riconoscimento vocale o delle immagini e nei sistemi di Nlp – Natural Language Processing.

La vera questione è come decideremo di usare l’AI. Molti sistemi, dai motori di ricerca basati su algoritmi di machine learning ai sistemi di apprendimento profondo, passando per i robot industriali, sembrano intelligenti, ma non lo sono ancora. La vera sfida non sarà sviluppare l’intelligenza delle macchine, ma abilitare il collegamento tra intelligenza umana e potenziamento tecnologico, nell’ottica di una sinergia positiva e autoalimentantesi.