Si chiude il 2020. un anno non facile, cosa ha rappresentato per te?
Il 2020 è stato l’anno delle forti emozioni e dei forti ossimori di vita reale.Un anno in cui abbiamo dovuto fermarci, per andare avanti. Un anno in cui abbiamo dovuto pensare a come vivere distanziati, e lavorare più vicini. Un anno in cui in tutto mondo, di colpo, il concetto di casa e di lavoro, di “globale” e di “domestico” si sono accavallati. Un anno in cui (finalmente direi) si è scardinato in qualsiasi business il concetto di “grande meglio del piccolo” e si è sdoganato, allo stesso momento, nella comunicazione dei brand quello di “poco e meglio di molto”. Un anno in cui la parola “positivo” ci ha fermati, mentre la parola “negativo” c’ha permesso di andare avanti. Un anno in cui abbiamo imparato a fare il nostro lavoro in maniera diversa, in maniera distante, in maniera remota, togliendo il meno possibile dalla qualità dei progetti che abbiamo fatto, capendo che siamo competenti, resilienti ed intelligenti da poter sempre e comunque mettere le nostre storie e quelle dei nostri clienti davanti alla macchina da presa. Un anno in cui si è capito, o forse meglio, cominciato a capire, che “fare il giusto” e meglio che “fare e basta”. Un anno di ossimori quindi che spero abbia innescato, tra una paura e l’altra, alcuni dei bei pensieri che, spero, sbocceranno in cose belle nei prossimi anni.
Detto questo, il 2020 è stato un anno “non facile” ma il “peso” del 2020 non è finito con l’arrivo del 2021, tutt’altro. Il turbinio degli ossimori e delle emozioni che ci hanno attanagliato nel 2020 stanno continuando e continueranno quest’anno e alla paura si aggiungerà, purtroppo, credo, la disperazione. Però, io, che sono un eterno ottimista, credo che si debba approfittare di tutto ciò che è “approfittabile” in questo periodo storico. Mi piacerebbe, e questo, onestamente, lo credo da un pò, che trasformassimo la voglia di lamento in voglia di cambiamento. E per cambiare, dobbiamo avere coraggio di, almeno, pensare di poter cambiare. Questo periodo mi ha permesso di pensare, di provare a capire, di analizzare, di provare a distillare il futuro post pandemia. Credo proprio che questo sia un momento “speciale”, il momento in cui dobbiamo “imparare” da questo momento storico, invece di lamentarci consci che la normalità che conoscevamo non sarà la futura normalità nella quale vivremo. Quella normalità, che tanto normale già non era, non tornerà mai più.
Non parliamo della “new normal”, perchè non ci sarà niente di “normal” dopo la pandemia. Entriamo quindi nel “new abnormal” con coscienza e non con paura. Capiamo qual è il nostro “recovery plan” per gestirlo nel futuro. Insieme. Parlandone. Abbracciamolo. Tracciamolo. E quando saremo tutti vaccinati, aiutiamo a scriverlo, perché questa nuova abnormalità, come direbbero gli americani, “is here to stay”.
Cosa ti è maggiormente dispiaciuto constatare nell’anno appena trascorso?
Mi dispiace constatare che il nostro presente è così intenso e così pieno di emozioni e informazioni e paure che non ci permette di pensare al futuro. E il futuro arriverà e, se non siamo pronti, ci travolgerà se rimaniamo legati ai soliti lamenti del passato che non collimeranno col “new abnormal”. Quindi proviamo a pensare “diverso”, anche con il rischio di cambiare i nostri lamenti, perché solo pensando adesso a “come sarà” non ci farà paura “come sarà”.
Già dall’inizio del primo lockdown pensavo che sarebbe stato bellissimo usare questo momento storico per fare un “restart” un “reboot”, uno “spegni e riaccendi” come quello che ci consiglierebbe di fare il nostro consulente IT quando il nostro computer comincia a fare le bizze e la rotellina in mezzo allo schermo non smette di girare. Ne parlavamo tanto nelle interviste di Antivirus pillole da_lockdown su FB.
Onestamente però, dopo quasi un anno di incertezze, e di futuri shaker-ati grazie alla pandemia globale, non credo, e non vedo, alcun segno di un concreto “reboot” del nostro mercato/business/comparto. Alcuni di voi mi potrebbero dire: “che cavolo dici Karim, noi stiamo cambiando! Stiamo cambiando tanto”. E’ vero, alcuni modelli stanno cambiando alcune aziende stanno cambiando, ma se cambiano le parti devono cambiare anche i processi fra le parti.
E’ chiaro che pochi hanno il coraggio di spingere il bottone del restart in questo momento, visto che non c’è una vera fine in vista da qui a poco e c’è molta incertezza e paura verso il futuro, panico del momento, disperazione, pochi soldi poco tempo, meno persone che fanno più cose, e tante difficoltà varie. E’ altresì vero che se non decidiamo adesso il nostro “recovery plan”, quando cavolo lo facciamo? Facciamo quello che speriamo possa fare Draghi nel prossimo anno.
Infatti, sarò un idealista, un eterno ottimista, ma credo fortemente che sia oggi il momento giusto per mettere “a sistema” un nuovo modo di lavorare, per tutte le parti in ballo, un modo più “lubrificato”, più disintermediato, un pò più nuovo e consapevole dei tempi, dei soldi, del cambiamento. “Settiamo” la nostra “nuova abnormalità” mentre aspettiamo di finire di scrivere il capitolo che stiamo attualmente vivendo. E’ questo il momenti in cui potendo “dare la colpa” allo stesso evento globale che ci accomuna, uguale per tutti nel mondo, possiamo provare a pensare a come cambiare e migliorare i processi fra le parti, perchè banalmente, se cambiano o stanno cambiando o stanno pensando di cambiare i modelli di business di Cliente, Agenzia, CDP, Talenti, non possono non cambiare i processi fra queste parti.
Quindi, la mia speranza era, è, potrebbe essere, quella di RI-cominciare cambiando, o banalmente aggiustando, le regole che non funzionano con regole più interessanti e magari più coraggiose, tenendo quello che funziona e forgiando una serie di modalità più fluide, cancellando magari quelle un pò più macchinose create dall’incancrimento del tempo e “dell’abbiamo sempre fatto così”. Sarebbe bello cambiare alcune regole per lavorare meglio e lavorare con le nuove regole e fare cose belle e giuste per i nostri clienti.
Per farlo, bisogna andare oltre il “tanto l’abbiamo sempre fatto così” e il “tanto non cambierà nulla”. Bisogna magari solo, in alcuni casi, cambiare l’ordine tenendo gli stessi ingredienti come ho fatto con le domande che mi avete mandato. Bisogna parlarsi per migliorare perchè credo che il momento per farlo sia adesso e solo con un confronto costruttivo fra tutte le parti può portare a processi migliori, progetti migliori, talenti migliori, budget migliori e, alla fine di tutto, un mercato ed un business migliore.
Qual è la tua visione per affrontare il futuro, su quali paradigmi fondi il tuo credo?
Credo che, soprattutto in un periodo in cui la fame di contenuti può essere lenita solamente dalla produzione “giusta” e specifica di tali contenuti, le case di produzione devono diventare veri e propri partner delle agenzie e dei clienti. Dei “solution providers” basate sul talento e sulla competenza creativa e produttiva: non solo quindi un team di produzione che fa progetti presentando le loro soluzioni produttive, ma veri e propri partner creativi che possono, attraverso il talento – quello loro, ma soprattutto il talento che possono portare a bordo, “dare una vita” e dare bellezza al foglio di carta sul quale l’idea stessa viene scritta.
Credo che per far delle “cose belle” per, appunto, “dare la miglior vita” alle creatività che ci vengono affidate, stia a noi, capire quali talenti, quali progetti, quali pensieri creativi portare al tavolo per far sì che si faccia il progetto migliore, e più giusto, nei tempi e nei costi dati.
Ma il processo nel quale viene inserita la nostra competenza, non sempre riesce a valorizzare questa nostra suddetta competenza, perchè è il processo stesso che ci tratta, più volte che non, come quelli che “vendono la fornitura della produzione di uno spot” e non quelli che “creano un prodotto di content per un Cliente in collaborazione con l’Agenzia”. Noi collaboriamo a creare un prodotto, ma questo non sempre ci viene accreditato. Pensiamo infatti al fatto che le CDP, i registi e i talenti di produzione non sono, molte volte, neanche accreditate nei Credits di un progetto o di un comunicato stampa, come se la produzione non avesse aiutato a dare vita al progetto, come se non siano state fatte le migliaia di riunioni e decisioni con la parte produttiva, come se l’idea creativa miracolosamente fosse passata dallo stato platonico allo stato pixellato da un giorno all’altro con il tocco di una bacchetta magica.
Ho sempre creduto che la produzione fosse la “pelle” che si mette sull’idea per farla vedere al mondo, per farla “sentire” al mondo. Senza quella pelle l’idea non esiste, perché non può essere emotivamente fruita. Quella pelle, estensione visiva dell’idea, deve essere “giusta” per far sì che quell’idea “si faccia vedere e fruire al meglio”. Infatti ci si dimentica spesso che è anche merito della produzione quando l’idea piace, quando il progetto ha successo, quando c’è effectiveness nel progetto e quando viene fruita al meglio e nella maniera giusta.
L’idea non prodotta rimane platonicamente nell’aire, lontana dai sensi e nella sola memoria di quelli che l’hanno avuta, mentre quella prodotta rimane concretamente visibile a molti e istiga i nostri sensi e le nostre emozioni perché attraverso la produzione quell’idea è nata così da essere vista, criticata, apprezzata, condivisa, amata e odiata.
E’ per tutto questo che adoro il nostro lavoro. E’ per tutto questo che lo credo creativo, e lo credo punto importante nella filiera e non solo l’ultima fase della filiera. E’ per questo che credo che la mia casa di produzione, Indiana, abbia un modello che permette di “dare qualcosa”, “aggiungere qualcosa” quando i clienti e le agenzie “approfittano” di noi.
Ritieni di essere riuscito a concretizzare per la realtà che capitani il modello di business ideale, se sì perché, se no, idem e se in parte a che punto del percorso sei?
Anche per tutto quello che ho detto qui sopra, io credo che le case di produzione oggi, per paura e per rispetto del business, non stiano facendo il passo che dovrebbero fare per consolidare la loro posizione di un player importante nel mondo della creatività e della creazione di brand content e di entertainement. Credo che le case di produzione in generale, e la mia casa di produzione in particolare, debbano vendere il talento, debbano vendere prodotti di comunicazione visiva che la gente voglia guardare e condividere, debbano vendere entertainment ed engagement e per fare questo debbano “lubrificare il processo” fra le parti e fra le aspettative per arrivare al miglior prodotto possibile. Come ho detto prima, siamo dei “solution providers” e quando veniamo chiamati per esserlo, questa nostra competenza finisce subito nella qualità del prodotto finale. Indipendentemente dai soldi, dal budget, dalla grandezza del progetto.
Per essere “solution providers” dobbiamo valorizzare il nostro operato davanti ai nostri stakeholders principali, e quindi dobbiamo tornare ad essere consulenti rispettabili e rispettosi del processo creativo. Questa filosofia che basa tutto sul talento, sulla qualità, sul valore del prodotto finale, sulla lubrificazione del processo, sulla “giustezza” del content e della sua fruizione è il modello di Indiana Production: una casa di produzione che crea tutti i tipi di contenuti in maniera giusta per la creatività, il budget, l’aspettativa, lo schermo nella quale andrà e la fruizione del contenuto stesso.
E’ chiaro che questo modello di business, non si basa sulla grandezza dei budget ma sulla versalità del modello stesso nel riuscire a gestire sia il piccolo che il grande, sia la serie di Netflix che i contenuti digitali di Falconeri, sia il docu-short film di Lamborghini che i contenuti digitali di Courmayeur, sia lo spot di Fiat 500e con Leo di Caprio che il sequel dei Moschettieri con SKY. In questo modello non è quindi il budget a essere la discriminante, ma la competenza di Indiana stessa nel riuscire a trasformare le aspettative creativo/economico/produttive in un progetto produttivo/creativo nei tempi e nei costi basandoci sui talenti che portiamo sulla barca a remare con noi. Con questo modello proviamo a trovare e proviamo a convincere i nostri clienti e/o le nostre agenzie a comprare le “solution” migliori per le produzioni che ci vengono affidate.
E poi non dimentichiamo che il modello deve uscire dai confini dell’Italia e deve vivere ed essere valido in un mondo che è ogni giorno più raggiungibile e più piccolo. Il talento è un valore globale. E noi tutti possiamo essere glocali nel nostro pensiero.
A che punto del percorso siamo? Diciamo che siamo a metà strada. Da un lato dobbiamo sperare di non dover frenare per cause al di fuori del nostro controllo, dall’altro dobbiamo sperare che i nostri clienti e le nostre agenzia capiscano che solo con la collaborazione fra tutte le parti, solo con la valorizzazione della “nostra parte”, solo con l’accettazione del nostro ruolo di partner/consulenti e non di meri esecutori, si può fare in modo che alcuni progetti, complicati dai pensieri, dai tempi stretti, dai soldi, da tutte le difficoltà varie, possano essere fatti.
Molte volte è, tra l’altro, questa la #theindianaway che menzioniamo e che spesso le nostre agenzie e i nostri clienti ci richiedono.
Essere oggi leader: qual è la principale dote che bisogna possedere?
Mi fa ridere pensare di essere leader, anche se sono consapevole di esserlo ormai da un bel pò di tempo, Il verbo “to lead” infatti ha un significato molto forte, importante e non deve mai essere dato per scontato. Ho avuta la fortuna di avere come esempio dei leader che mi hanno insegnato molto e questo, in primis è una cosa molto importante.
Il leader deve essere consapevole che “conduce”, “guida”, un gruppo di persone – infatti nessuno può essere leader di se stesso. “Guidare” vuole dire portare avanti pensieri e persone, vuole dire dare una direzione, vuol dire dare un sapore ed un umore ed una sensazione al viaggio stesso per arrivare ad una meta. Per un leader non deve essere solo importante arrivare alla meta e non deve essere importante arrivarci a tutti i costi, magari da solo e per primo e magari lasciando indietro tutti coloro che hanno aiutato il leader ad arrivare alla meta stessa. Per un leader deve essere importante la scelta delle persone che permettono al leader di portare tutti alla meta, importante il ruolo e l’umore di quelle persone per poter arrivare alla meta. Il Leader deve farle responsabilizzare, innamorare, incazzare, calmare, spingere facendo sempre vedere dov’è la meta da raggiungere. Ma per un leader deve essere importante il viaggio tanto quanto la meta.
Credo che I leader debbano sapere ascoltare tanto quanto parlare. I migliori capi che io abbia mai avuto hanno sempre avuto l’open-door-policy. L’ufficio con la porta aperta che permette a chiunque, a qualsiasi livello di poter entrare e parlare e dire cose. Conoscere le persone e capirle, aiuta la fluidità del lavoro. E ascoltare è un buon lubrificante.
Credo che i leader debbano insegnare, debbano far innamorare, debbano incuriosire, debbano fare in modo che le persone portino un pò di loro stessi nel loro lavoro, nei loro pensieri, nelle loro emozioni. La cosa che dico sempre alle persone che lavorano con me è di “innamorarsi almeno una volta al giorno”: di una cosa, di una parola, di una persona, di un fascio di luce, di un momento di vita. Credo infatti che guardare il bello ed incorporarlo, porta a gestire meglio il “brutto” e il difficile.
Detto tutto questo, alla base del mio essere leader c’è anche, e soprattutto, la regola delle 3 “R”, che dice che il miglior lavoro, e quindi il miglior capo, deve dare Respect, Reward e Recognition. Mia zia mi raccontò questa regola quando diventai Head of Production della Y&R/Chicago ormai più di 20 anni fa ed è questa regola che è rimasta alla base di come ho sempre giudicato i lavori che ho ottenuto, giudicato il mio operato come leader e giudicato come vorrei che i miei collaboratori giudichino me come leader.
Rispettare, Ricompensare e Riconoscere deve essere alla base di come noi leader lavoriamo e facciamo lavorare i nostri collaboratori. Sempre.
Successi, progetti, quali vuoi menzionare come emblematici della tua impostazione?
La regola dei 2 progetti all’anno.
La meta di ogni anno lavorativo deve essere quello di portarsi a casa almeno 2 progetti che possano essere la scansione, la descrizione, il distillo dell’anno appena trascorso. Non sono i progetti ricchi (non sempre lo sono infatti), ma sono i progetti che hanno portato la conoscenza di ciò che non sapevamo, un mal di testa per arrivare ad un risultato inaspettato, per esempio, oppure lo sforzo per incastrare un progetto scollato.
In un anno come il 2020, il rischio di non aver neanche un progetto di cui potessimo andare fieri era altissimo, invece devo dire che siamo riusciti a fare delle cose bellissime e di portarci a case dei progetti emblematici che magari per noi, per me, sono diventati importanti e quindi descrittori dell’anno appena passato. E il fatto che sono più di 2, mi rende ancora più felice. Ho scelto quindi progetti molto recenti oppure non ancora usciti per descrivere rispondere a questa domanda, perché, appunto “emblematici della nostra impostazione”.
Partiamo da 2 progetti fatti con Small Agency (NY), l’agenzia di Luca Pannese e Luca Lorenzini, per 2 clienti diversi, con 2 modalità diverse con 2 scopi diversi. Il primo è lo spot della Timberland fatto per Earth Day: prodotto nel primo lockdown nella maniera più “domestica” possibile – tutta Indiana coinvolta da casa, immagini di repertorio ricercate e scelte da casa, voice-over fatto dalla figlia di Lorenzini, a casa, e la font per i sottotitoli fatta dalla figlia di Pannese sempre a casa – che era anche l’unico modo possibile per produrlo.
Il secondo è lo spot di Coordown che, non essendo mai andato in onda nel 2020 essendo noi tutti in totale lockdown globale a Marzo dell’anno scorso, andrà in onda a Marzo di quest’anno, diventando così, quasi sicuramente, anche il mio spot emblematico del 2021: vi assicuro che è bello, bello, bello, e anche giusto, ma #cosechenonpossodire ancora.
Poi metterei sulla lista Jeep “Trailrated” (Razorfish Miami) e FIAT 500e (Ideal + Leo Burnett Torino) che ci hanno fatto capire quanto la nostra competenza sia creativa e resiliente, quanto la nostra voce possa essere internazionale e quanto questo periodo ci abbia insegnato a lavorare in maniere remotamente interessanti.
E infine Lamborghini “Chase”, uno dei pochi film che abbiamo fatto ultimamente che sono riusciti a dimostrare che lavorando insieme, veramente, come un team, si può fare in modo che il budget dato sembri molto più grande sapendo che il budget dato non era abbastanza.
Questi 5 progetti, e non solo 2, sono quelli che ci rendono fieri di questo 2020 appena passato.
Se fossi Ceo o Cmo di un brand che investe in comunicazione come agiresti, insomma, potendo dare consigli quali senti di dare al mercato dei clienti?
La risposta veloce sarebbe che se fossi un Ceo e un Cmo di un Brand, imparerei tutto il possibile, anche dati alla mano, sul mio brand, e sui miei competitor, capirei ed esploderei il brand purpose, che devo avere, e la brand accountability, e poi trasformerei il tutto nel giusto “storydoing” (neologismo di quest’ultimo periodo che a me fa venire lo stesso brividino dietro la schiena – scusa Bruno Bertelli – come mi fa venire il concetti abusato da molti di “advertising a 360-gradi”)… ma non credo che basti una risposta veloce.
Il mercato ci sta dicendo che i flussi che conoscevamo stanno cambiando, che i modelli si stanno adattando, che i media si stanno differenziando, che i mercati si stanno allargando, e che i soldi stanno sparendo, è per questo che credo sia giusto, proprio in questo periodo, ripensare, aggiustare, migliorare i processi.
Perchè da Ceo/Cmo probabilmente, oggi, mi ritroverei con più domande che risposte, con più problemi da dipanare, con più risposte da dare e più pressioni da gestire e, quasi sicuramente, con meno soldi di quanti ne avessi solo pochi mesi fa da maneggiare.
La cosa che farei è trovare un “linguaggio” di comunicazione tutto mio – non copiando qualcuno, non guardando fuori da me, ma guardando dentro, raccontando a modo mio il mio racconto di brand (più facile da dire che da fare mi rendo conto). L’altra cosa che farei è analizzare il business, parlare con le parti per creare un processo che permetta di avere la qualità più alta, con la processualità più fluida e quindi, con l’impatto economico migliore sulla mia azienda. In questo periodo storico, proverei a capire e proverei a parlare e provare e capire come lavorare meglio con le diverse parti che mi servono per farle lavorare meglio per me, con il coraggio di scegliermi i partner con cui fare un viaggio oltre i possibili errori dai quali imparare insieme.
Lo so, lo so che tutti noi parliamo del fatto che dobbiamo lavorare insieme, lo dicono le agenzie quando parlano del rapporto con i clienti, i clienti dicono di richiederlo nel rapporto con i loro partner e i loro fornitori, ma, parliamoci chiaro: non lo stiamo facendo quanto potremmo farlo. Quindi facciamolo. Facciamo che cominciamo a provare a disintermediare il processo un po’ di più, a rendere più corta la catena, facciamo che proviamo a cambiare la burocrazia e la regolamentazione. Basta scrollare le spalle come per dire “tanto l’abbiamo sempre fatto così” trasformiamo l’affermazione in “proviamo a farlo cosà”.
Il tema della rilevanza del mercato della comunicazione: è un tema? Ossia perché non sempre si è tenuti in alta considerazione, da governo, aziende, opinine pubblica? Una questione di carenza di ‘carismatiche star’?
Secondo me, “la rilevanza del mercato della comunicazione” è un tema importante ma, parliamoci chiaro, si è rilevanti quando si è presenti, non essendo presenti, e non avendo delle “pubblici-star”, non siamo, ovviamente, top-of-mind, non siamo neanche considerati come una possibile possibilità. Detto questo le conversazioni che abbiamo intavolato come comparto in questo ultimo periodo (Bauli in Piazza, la critica fatta dall’Adci attraverso Vicky Gitto, nei confronti della inutile diatriba attorno al pubblico in sala durante il Festival di Sanremo di quest’anno, ecc) sono state conversazioni valide, importanti tasselli per cominciare a costruire quelle fondamenta che porteranno a darci un po’ di visibilità.
Ma ricordiamoci che questa mancanza di rilevanza è anche un pò colpa nostra. E’ colpa dei progetti che facciamo che non sempre influenzano la cultura, gli stakeholders, le istituzioni. E’ colpa del fatto che ciò che facciamo per vendere e comunicare i brand e i prodotti dei nostri clienti, non riusciamo sempre a farlo per noi stessi, le marche e i brand dei quali siamo soci, manager e partner. I progetti dei nostri clienti li facciamo PR-abili, e non riusciamo a PR-are noi stessi, magari con gli stessi trucchetti che usiamo sui progetti che facciamo. E’ colpa del fatto che siamo lamentosi prima che critici. E’, banalmente, colpa del fatto che gli archi-star sono conosciuti da molti e sono facilmente affiancabili alle cose che fanno che molti nel mondo hanno visto, mentre noi che siamo “pubblicitari” oggi, siamo, conosciuti da pochi e facciamo cose che, anche quando sono valorialmente e creativamente forti, vengono pubblicizzate poche volte oltre i confini dei nostri “giornalini” e dei nostri premi come fatte da nostro comparto, dalle nostre aziende, dai nostri “pubblici-star”.
Propongo quindi di risvegliare il progetto di Cpa per fare gli Stati Generali della Pubblicita’. Una 2-giorni in cui Upa, Una, Adci, Cpa, Air3, i Cost Controller, Obe, le Istituzioni, e tutti gli stakeholders del nostro business vengono al tavolo della conversazione per partecipare alla conversazione: speech, lecture, tavole rotonde, racconti, ospiti da tutte le parti del nostro business e del mondo (nessuno escluso), per parlare di come migliorare i processi, migliorare i progetti, migliorare il lavoro. Un mini convegno, un Ambrosetti della pubblicità in cui parlare della prossima New Abnormality in maniera costruttiva, senza celodurismi personali ma con la volontà di creare un celodurismo del nostro comparto, del nostro business, della pubblicità e del mondo della comunicazione.
Non sto parlando di fare un altro IF!, sto parlando di Davos e non di Cannes. Un evento di business, alla fine del quale redigere un documento onnicomprensivo con alcune regole del gioco discusse nei 2 giorni.
Non respingiamola subito questa proposta, perchè credo che provare a fare una conferenza PR-rabile non sia impossibile, anzi, sia necessario e sia raccontabile. Se stiamo seduti nei nostri angoli a parlare l’uno dell’altro e a lamentarci del fatto che non siamo considerati e non siamo rilevanti alla casalinga di Voghera quando lo è Boeri, e non proviamo a Confrontarci, a vederci e ad ascoltarci per un paio giorni così da poter creare insieme questa rilevanza, questo carisma, che crediamo di non avere, allora ci meritiamo di essere quello che siamo.
Non si diventa rilevanti da un giorno all’altro e non si diventa rilevanti parlando di quanto non siamo rilevanti senza lavorare sulla qualità di quello che poi ci può rendere rilevanti: la qualità di cui parlo è l’importanza delle idee che abbiamo e dei progetti che facciamo.
Proviamo quindi a fare questi Stati Generali della Pubblicita’. Io ci sono, sia da solo che con Cpa, per aiutare, per costruire, per non lamentarmi. Costruttivamente. E sono a disposizione per cominciare a parlare di come farlo, questo Davos della Pubblicità, qui a Milano, entro, che dite, Luglio di quest’anno.
Sono a disposizione per parlarne live, distanziati socialmente, al telefono, via email, su whassup, o magari con un una serie di incontri in varie room di CLUBHOUSE – che sto seriamente pensando di iniziare, magari sotto il banner di Antivirus così, oltre a scambiarci opinioni, potete anche insultarmi a voce per la lunghezza delle risposte a queste domande. I am ready. Grazie a tutti.
Karim Bartoletti, Indiana Productions.