Quando l’economia va a rotoli, l’industria pubblicitaria va ancora più a rotoli, raccontava Peter Kafka, executive editor di Recode, in un podcast da lui ‘recitato’ per Vox. È stato così sia durante la recessione del 2008, sia nel 2020, quando la pandemia ha colpito e le aziende hanno bloccato come prima cosa i loro budget pubblicitari. E anche adesso, negli USA, le aziende che si occupano di pubblicità stanno soffrendo in misura sproporzionata rispetto al mercato, che è pure in forte calo nell’ultimo anno.
Perché sta accadendo proprio negli Stati Uniti (il contesto è differente ed egualmente grave in Europa, ma la cause sono diverse)? Ci sono alcune ragioni o, meglio, ipotesi. Una di queste è che la pubblicità faccia come il canarino nella miniera di carbone, che morendo per primo dà l’allarme per le infiltrazioni di grisù. Così la spesa pubblicitaria complessiva sta già iniziando da tempo a calare. Un’altra ipotesi molto diffusa è quella di dare la colpa ad Apple, in particolare tra i media publisher che stanno subendo le conseguenze dell’Apple Tacking Transparency già prima che il crollo del mercato fosse evidente.
Ma il crollo della pubblicità è anche il risultato di un problema strutturale: è relativamente facile e veloce riorientare i budget pubblicitari se un’azienda ha bisogno di liquidità. Non è possibile fare lo stesso con gli affitti, i leasing, o i costi di produzione. E poi c’è anche un’altra interpretazione: sì, la spesa pubblicitaria sta calando, ma forse si tratta solo di una razionalizzazione del mercato dopo un paio d’anni di follia.
Un’altra ipotesi, o meglio un altro fenomeno che si somma all’attività di Apple (non si dimentichi che negli Usa grosso modo il 50% del mercato consumer è nella mani della Mela) è quella relativa ai fake account.
Le grandi piattaforme tecnologiche gratuite per i consumatori sono afflitte da truffatori che utilizzano i loro strumenti visivi e gli indizi progettati per trasmettere fiducia e legittimità, spesso combinando gli sforzi su più piattaforme.
Uno schema prevede l’utilizzo di account gratuiti di Spotify e Apple Music e di di ufficio stampa gratuiti per ottenere un segno di spunta blu da Instagram. Altri truffatori usano account IMDb gratuiti per inserirsi negli elenchi del cast dei film di Bollywood con piccoli ruoli falsi e poi corroborano queste ‘parti’ fasulle con falsi account Spotify e YouTube. Il risultato finale è quello di indurre Google a fornire una ‘Knowledge Box’ nelle ricerche del loro nome.
L’ultima tattica arriva per gentile concessione di LinkedIn, dove sono improvvisamente comparsi un gran numero di ruoli apparentemente falsi di ‘Chief Information Security Officer’. Non è chiaro quale sia lo scopo di questa truffa, ma è sicuramente losca. LinkedIn potrebbe risolvere il problema inserendo una verifica della data pubblica che mostri quando un account è stato creato, in modo che le persone possano vedere se è sospettosamente nuovo, scrive il security researcher Brian Krebs.
Twitter include un timestamp per la creazione dell’account, che aiuta a individuare gli account bot creati ex novo. Ma la prevalenza degli account bot è tutt’altro che un problema risolto. È noto che i truffatori hackerano, comprano o semplicemente aspettano di impossessarsi di account verificati con controllo blu, per poi usare questo simbolo per ingannare altri account tramite DM.
Infine vi è la ricerca di subscription online. YouTube ha appena lanciato una nuova opzione di abbonamento per YouTube TV che consente agli utenti di acquistare abbonamenti a reti specifiche piuttosto che pagare un’ingente somma forfettaria ogni mese per l’intero pacchetto.
Gli abbonati possono passare dal piano di base di YouTube TV, che comprende 85 canali a ben 64,99 dollari al mese, al nuovo piano di YouTube ‘solo add-on’, che consente agli utenti di scegliere solo le reti che desiderano e di pagare un prezzo inferiore. Il piano ‘add-on only’ offre 20 reti televisive, tra cui Starz, Showtime e HBO Max. Il nuovo piano avvicina YouTube TV all’emulazione dei servizi di aggregazione di contenuti in streaming come Apple TV, Amazon Fire TV e Roku. La mossa ha senso dal punto di vista della monetizzazione. Un’offerta a prezzi più bassi aiuterà YouTube a far crescere la sua base di abbonati e a ricavare una percentuale dei ricavi pubblicitari dello streaming dai suoi partner di contenuti.
Ma perché i media owner dovrebbero partecipare? Si tratta di convertire gli spettatori in abbonati.
Prima i publisher non pagavano la pubblicità per spingere gli spettatori ad abbonarsi a YouTube TV. Questo era compito di Google. Ma ora che c’è un nuovo ‘evento’ che punta ad aggiungere potenziali abbonati a canali specifici, che permette si scegliere ‘quali’ canali vedere, e i media owner saranno obbligati a promuovere gli abbonamenti a YouTube TV nel tentativo di aumentare le proprie conversioni.
Il tutto in uno scenario complesso di un cord cutting diffuso e di una transizione dalla cable alla streaming tv. E di recessione economica sempre più evidente negli States