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Accordo in Francia tra Google e l’Alliance de la Presse d’Information Generale per retribuire i media all’interno della GNI. L’Ottagono è primo in Europa, ma non tutti gli ostacoli sono stati appianati

Giovedì scorso è stata una data fondamentale per la Legge sul Copyright nell’Unione Europea: in Francia, primo paese ad adottare legalmente le normativa, Google ha raggiunto un accordo con l’Alliance de la Presse d’Information Generale, la potente APIG che rappresenta la quasi totalità dei media d’Oltralpe. L’avvenimento è stato stato salutato da un comunicato congiunto della APIG e di Google France, diffuso nella giornata di giovedì scorso, che riporta, non senza soddisfazione, che “Google négociera des accords individuels de licence avec les membres de l’Alliance dont les publications sont reconnues d’Information Politique et Générale, tout en reflétant les principes fixés par la loi”.

La soddisfazione è dovuta al lungo e accidentato percorso necessario per addivenire a questo accordo, che si era aperto nella prima metà del 2019, con Google inizialmente arroccato sulla sua classica posizione, delle news che non porterebbero vantaggi economici al motore di ricerca ma al contrario l’indicizzazione dello stesso andrebbe a tutto vantaggio della testate, che si avvantaggiano di una diffusione aggiuntiva e di lettori che diversamente non sarebbero mai arrivati sui siti.

Posizione che si è fatta più flessibile nei mesi seguenti, con il lancio della Google News Showcase, un sistema per remunerare alcuni editori con i quali si sono stabiliti accordi, che è finora disponibile in Germania, dove hanno aderito i quotidiani tedeschi Der Spiegel, Stern, Die Zeit, e in Brasile con Folha de S.Paulo, Band e Infobae. Questa iniziativa prevede un investimento pluriennale per un totale di 1,3 miliardi di dollari, in parte sotto forma di servizi, a vantaggio dei media.

Con l’accordo di giovedì la GNI arriverà anche in Francia, ma, a giudicare dai termini dell’accordo stesso, sarà allargata a tutti gli editori facenti parte dell’APIG, valutati secondo una serie di parametri che non sono stati resi noti, ma che includono diversi criteri tenuti in considerazione per definire la somma dovuta al publisher: il contributo fornito alla discussione politica, l’impegno profuso ai fini dell’informazione, il volume delle pubblicazioni e ovviamente il traffico generato. In un suo intervento sul blog ufficiale francese Google ha definito un “grande passo in avanti” l’accordo siglato che stabilisce un framework attraverso il quale sarà in grado di negoziare le licenze con ogni specifico editore.

Sempre settimana scorsa, anche Reuters ha confermato di aver firmato un accordo con Mountain View per diventare il primo fornitore globale di notizie a Google New Showcase. “Reuters è impegnata a sviluppare nuovi modi di fornire l’accesso a una copertura di notizie globale fidata, di alta qualità e affidabile in un momento in cui non è mai stato più importante”, ha spiegato Eric Danetz, Global Head of Revenue dell’agenzia stampa.

Tutto sembrava instradato verso una collaborazione proficua, pur con l’ovvia condizionalità di come i contributi ai media sarebbero stati calcolati e a quanto avrebbero ammontato: anche i giornali francesi con i quali già c’erano accordi – come Le Figaro e Le Monde – sarebbero stati ricompresi nell’accordo generale.

Nella serata stessa di giovedì, tuttavia, è stato distribuito ai media un comunicato di Google che specificava che “Google pagherà per i contenuti che vanno oltre i link e gli estratti brevi”, ritornando quindi alla posizione iniziale per gran parte dei risultati delle ricerche. Mentre si attendono gli sviluppi ulteriori, e precisazioni, dell’accordo  annunciato con grande enfasi in Francia; in Australia, dove un’altra legge vorrebbe obbligare Google a retribuire i media locali, pena un arbitrato, il motore di Mountain View ha fatto sparire i link di alcune testate dai risultati di ricerca per un ‘esperimento’, che sarebbe stato volto a determinare il valore del servizio, mentre all’attività di lobbying sull’argomento si è prestato anche l’Office of Trade Representative statunitense, schieratosi a fianco dei Big Tech (Google e Facebook) a favore di una soluzione più soft.

In altre parole, la guerra continua.