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Primo Giorno del Summit Upa ‘Per tempi difficili voci forti’. Sassoli de Bianchi merita l’applauso. Una giornata con interventi densi, ognuno a far intuire qualche cosa di più. Dimostrando quanto la contraddizione possa essere coerenza e numeri, economia e mercato. Espressioni di un’umanità poliedrica e articolata. Di cui i giovani, meglio i millennial, sono il futuro che alletta

Pensatela come volete, ma chi ha trovato astratto o demagogico il primo giorno del Summit Upa non ci trova d’accordo. A partire dal discorso introduttivo del presidente Lorenzo Sassoli de Bianchi che con capacità entertainment ha saputo qualche volte sfiorare, altre affondare, l’attenzione sui temi più scottanti di un comparto che attiva il 15% del Pil italiano e che oggi si complica nell’esponenziale crescita di device e piattaforme. 10 e 15, per l’esattezza, rendendo arduo l’algoritmo delle pianificazioni contemporanee (l’investimento nei social media è ancora dispersivo per eccessivo rapporto costo contatto).

Ritenendo utile ribadire il no ai diritti di negoziazione, in nome della trasparenza, così come la difesa di partnership di lungo con le agenzie, sempre che titolate a traghettare i prodotti delle aziende dalla sfera materiale a quella psichica (tra l’altro invocando il lavoro di squadra, perché solo un’orchestra che funziona fa sinfonia). Ancora, poi, una voce perché in Italia si investa in banda larga e perché la Rai rinnovi la propria governance e nell’autonomia dedichi un canale al servizio pubblico tout court, rinunciando lì alla pubblicità.

Il tutto appesantito da una crisi che schiaccia la classe media, additando il pericolo di un rigore che alla lunga intossica. L’intervento dell’economista Francesco Giavazzi ci ha dimostrato come la via d’uscita c’è e sta nell’applicazione della legge macroeconomica per cui all’aggiustamento dei conti con inasprimento delle tasse deve seguire, già dal primo anno di introduzione dei provvedimenti, il contenimento della spesa pubblica – 2 punti in meno di spesa equivalgono al guadagno di 4 punti di Pil – . Non è, dunque, che sia finita l’era del capitalismo basato sui consumi. Almeno sino a quando al suo posto ci potrebbe essere il pauperismo. Se un paese non cresce, infatti, aumenta il numero dei suoi poveri. E’ finita, invece, l’era del capitalismo basato su consumi con spesa pubblica, o su consumi insostenibili perché incompatibili con la sopravvivenza delle stesse nazioni.

Ma mentre per Dominique Moisi, geopolitologo dell’istituto francese per le relazioni internazionali, il credo sull’Europa deve restare forte (se i paesi emergenti smettessero di crescere non sarebbero in grado di fare fronte alle emergenze essendo troppo ampio il divario tra classi ricche e povere), con l’Italia inviata a difendere nella contemporaneità le specificità e le diversità che l’hanno resa creativamente grande, il ceo Wpp Martin Sorrell non ha dubbi definendo l’Est la nuova manna, unitamente a America Latina (Brasile in testa) e Africa.

Con il digitale a dettare i ritmi del business del futuro, seppur oggi ancora sottostimato nel suo appena 15% della torta, quando invece il consumatore passa il suo tempo soprattutto lì. Occhio anche al retail, che acquista potere, e ai governi, non solo perché le loro scelte si riflettono sull’andamento del mercato, ma pure come investitori.

A livello organizzativo, poi, enfasi sulla dimensione centrale-globale e su quella locale, entrambe funzionali alla rappresentazione della realtà contemporanea. Che parla anche dell’importanza crescente del financial procurement, non solo in direzione contenimento dei costi, (oltre un certo limite non si può andare) ma in aumento della top line (il marketing deve riacquistare potere), oltre che della sostenibilità.

E all’orizzonte della crescita spunta prepotente il tema dei giovani. Occorre stimolare le loro start up, investire in una formazione di valore, evitando che le scuole si trasformino in fabbriche di disoccupazione. Anche perché la nuova generazione dà speranze di non poco conto.

L’ha ben descritta Antonio Campo Dall’Orto, vice presidente esecutivo Viacom International Media Networks. Sono i così detti millennial, i nativi digitali, la super power generation. Due miliardi e mezzo di persone (peccato che l’Italia sia un paese che invecchia. Sentiremo la mancanza della loro spinta alla crescita).

Crocevia di un benessere familiare che ha saputo regalare tranquillità materiale con valori solidi e l’opportunità di concentrarsi per imprimere al sistema il loro apporto da dentro, volendo migliorare il mondo e credendo di riuscirci. Con e non contro, come invece furono i loro predecessori.

Il tutto reso elefantiaco dalla tecnologia, che connette, uniforma il senso dell’essere giovani nel mondo, seppur salvaguardando l’identità personale di ogni membro di questa generazione, che non è più tribù. E che concretizza qui e ora desideri e aspirazioni di una vita che è una. Senza distinzione tra reale e virtuale (anche nella scelte mediatiche si segue la logica del best screen available, massimizzando la propria soddisfazione, ma sempre condividendo).

Ecco perché, nonostante la perdita attesa per gli investimenti pubblicitari di fine anno, è il momento di impegnarsi nella ricomposizione di nuovi codici comunicazionali, che tornano prepotentemente a puntare sul racconto, sulla virtuosa combinazione che solo la capacità di mixare ingredienti doc sa generare (il direttore di Rai4 Carlo Freccero nel suo intervento a fianco di Giuseppe Richeri, docente di economia dei media dell’Università di Lugano, ha messo in guardia dal pericolo dell’enfatizzare il nuovo a tutti i costi. Non a caso, il vintage fa tendenza. Perché è la contaminazione a vincere. Anche a livello di palinsesti. Con programmi che guardano al lungo, eventi che giocano sul clamore di numeri da record in pochissime puntate e l’eco delle conversazioni in rete a segnare un ulteriore livello dell’audience. Finita l’era delle maggioranze, occorre creare molteplicità che lavorano poi sulle differenze).

Chiedendo ai media la capacità di creare contenuti rilevanti. Così, appurato che i reality sono ormai punti di svista sulla realtà, la stessa tv per continuare a restare al centro deve guardare all’empatia, al pionierismo, alla collaborazione con il web.

E a questo punto dovuto è il riferimento all’intervista cui Sassoli de Bianchi ha voluto personalmente sottoporre Matthew Weiner, sceneggiatore e produttore della serie televisiva Mad Men, ricavando che il must per produzioni di successo è la libertà. Dall’editore, dagli sponsor, dalla pubblicità e persino dal telespettatore.

Insomma, i programmi devono nascere da dentro, devono essere storie credibili, convincenti. Il business poi viene da sé. Perché se il contenitore non è di qualità, anche i messaggi che veicola perdono valore (e viceversa, cattiva pubblicità o product placement sbagliati screditano il programma), sciupando l’occasione di mantenere le promesse, anche culturali, etiche e valoriali, del brand.

E a proposito di etica, non potrebbe esistere migliore conclusione di quella utilizzata dal teologo filosofo Elmar Salmann a corollario del suo speach. Perché l’uomo democratico, l’uomo economico e pure l’uomo pubblicitario devono capire una sola cosa. “Dio esiste e non sei tu. Quindi, rilassati“.