Ne parliamo con Luca Cortesini e Michelangelo Cianciosi (rispettivamente a sinistra e destra nella foto), executive creative directors, Verba – stv DDB group.
Bello vedere un progetto come quello per RS 6, che ha coinvolto l’ex sciatore Gino Burrini, cui solo gli 81 anni appena compiuti hanno potuto convincerlo ad appendere gli scarponi al chiodo. Bello perché esatta sintesi del connubio tra tecnologia e innovazione con l’eternità del valore umano, declinato in una forza che non smette mai di dimostrarsi, sapendo al contempo sposare quanto la contemporaneità permette di offrire. Voglio sapere tutto di questo progetto. Come e perché nasce l’idea, quanto si collega alla visione internazionale dettata da Audi e come sta performando nella sua declinazione multicanale?
“L’idea di raccontare quattro con un’operazione come questa risponde a diverse esigenze. La prima, di esprimere una tecnologia, che ha fatto grande il brand con le sue imprese, senza essere celebrativi. Non è facile visto che stiamo parlando probabilmente dell’unica trazione integrale che ha un nome riconoscibile e un’identità al di là dell’auto cui appartiene. Poi, di parlarne senza ripetere il già fatto, visto che quattro è diventato il classico esercizio retorico su cui schiere di creativi che hanno lavorato su Audi si sono misurati nel tempo e la case history sull’argomento è lunghissima e con progetti che hanno fatto la storia dell’advertising.
Non ricordiamo chi ha fatto per primo il nome di Gino Burrini. Probabilmente qualcuno in agenzia che ha sciato a Campiglio ne aveva orecchiato la storia e l’ha portata a noi. Quando l’abbiamo cercato su Google è spuntato un giovane atleta, in uno di quei meravigliosi filmati dell’istituto Luce degli anni trenta, quei bianco e nero dalle atmosfere nostalgiche con lo speaker dagli aggettivi roboanti e siamo subito diventati suoi ammiratori ritardatari.
Non ci restava che metterci in viaggio per andare a conoscerlo ed è quello che abbiamo fatto. Ci siamo trovati di fronte a un vero pioniere dello sport, un uomo dallo spirito indomabile che vive in una casa che è un po’ il suo medagliere, piena di memorie e ricordi che aspettavano solo di essere condivisi. Audi ha subito capito la potenzialità di un’operazione di questo tipo e ha messo sul tavolo tutto quello che poteva per contribuire a rendere l’evento memorabile: una pista gloriosa e dal portato internazionale come la 3Tre, i contatti con la Fisi di cui Audi è sponsor da anni, il coinvolgimento in prima persona di un altro campione come Blardone e soprattutto una RS6 che fosse capace di compiere quello che gli chiedevamo.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, perfettamente in linea con la comunicazione di Audi nel mondo, che chiede ai singoli paesi di raccontare le grandi imprese che una tecnologia sempre all’avanguardia può permettere di compiere, allo stesso tempo ci ha dato la possibilità di poter raccontare una grande storia tutta italiana.
Il video, che ha totalizzato più di due milioni di visualizzazioni e un numero impressionante di share solo in Italia, oggi sta varcando i confini per essere adottato anche in altri paesi. E noi siamo molto fieri di aver ridato a Gino Burrini il seguito che aveva quando gareggiava per la coppa del mondo”.
Cosa significa lavorare per un brand come Audi? Per spiegare il motivo della domanda mi viene a titolo esemplificativo da citare il progetto Lifepaint. Come dire, essere partner di questa marca significa saper guardare sempre oltre l’asticella del già fatto e visto, ragionando in sinergia con l’internazionale, ma sapendo al contempo creare storie tutte italiane?
“Lavorare per Audi vuol dire avere a che fare con un brand che ha compreso chiaramente che il mondo è cambiato sotto tantissimi punti di vista e che è impossibile chiederci di essere gli stessi oggetti passivi di comunicazione che eravamo una volta.
Prima le marche raccontavano storie in cui erano al contempo narratori e star, facendo la parte di chi a una cena non fa che parlare dei propri successi e della propria bravura, spesso annoiando i presenti.
Per fortuna, non è più così. La gente vuole essere protagonista, vuole storie che potrebbero essere la sua, storie di cui condividere i valori, che emozionino. Vuole poter approvare, detestare, amare, ignorare un marchio e il mondo che propone, così come è prontissima a lasciarsi coinvolgere in una relazione se questa è coinvolgente, se suscita qualcosa.
Per riuscirci, i grandi marchi devono correre il rischio di non parlare solo di se stessi, ma anche di chi hanno di fronte. Hanno tutto da guadagnarne e la storia di Gino Burrini, secondo noi, ne è un esempio”.