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‘Ti amo. Ti Lascio’. La lettera a un cliente di Emanuele Nenna, Co-founder and Ceo The Big Now

Amore mio,

non possiamo più stare insieme. Ti devo lasciare. È per il mio bene, ma anche per il tuo.

Sono settimane che non dormo pensando a noi, cercando il coraggio di staccare la spina a una storia importante che purtroppo non sa più essere grande. Di cui non so più accontentarmi. Di cui non voglio e non devo accontentarmi.

Non ho trovato il coraggio di dirtelo di persona, quindi ti scrivo. Per codardia, forse, ma anche perché scrivere è la cosa che mi riesce meglio, mi permette di fermare i pensieri e renderli chiari, a me prima che agli altri. Forse non mi capirai lo stesso, ma ormai la decisione è presa, ed è giusto che io provi a spiegarti.

Non è colpa tua, mi dirai. E probabilmente hai ragione: il problema è che ci siamo allontanati, non vogliamo più le stesse cose, non ci fidiamo più gli uni degli altri. Dove sia cominciato non so, ma so che oggi parliamo lingue diverse. Ti aspetti da me cose che non riesco a darti. Ci provo, ma non ce la faccio davvero. Ci provo con così tanta buona volontà da sentirmi inadeguato, da sentirmi in colpa, arrivando a chiederti scusa sempre più spesso, senza però capire bene perché non ce la faccio. Una volta non era così: i miei pensieri erano interessanti per te, le tue critiche erano costruttive, le tue pretese commisurate.

Adesso no. Mi chiedi di fare ma non di pensare. Dici che ti interessa il mio parere e lo ignori, c’è sempre un buon motivo (o una buona scusa) per farlo.

Ti ricordi? Parlavamo di strategie, di come costruire una storia di successo per il tuo brand, guardavamo i dati della concorrenza e passavamo ore a cercare di capire quale fosse la strada giusta da prendere per fare meglio. Guardavamo lontano, cercando di immaginare cosa avrebbero pensato di noi le famiglie italiane, quali valori ci avrebbero attribuito. Ci chiedevamo quale grande idea potesse convincere il nostro target a preferire i nostri prodotti a quelli dei concorrenti nella stessa categoria. Festeggiavamo insieme i piccoli successi e ci chiudevamo in una stanza a analizzare i nostri errori, quando sbagliavamo. Sapevamo dove volevamo arrivare, avevamo una meta comune. Tu parlavi di numeri, io di creatività. Insieme di pianificazione, di storie di comunicazione, di traguardi sfidanti ma raggiungibili. Sapevamo creare brand con una personalità, una storia, impossibili da confondere gli uni con gli altri. Ci misuravamo sulla capacità di una campagna di farsi notare, farsi ricordare e di creare valore duraturo per la marca. Certo, abbiamo sempre un po’ discusso sul peso da dare ai packshot nei film, ma alla fine abbiamo sempre trovato la chiave giusta: il prodotto in scena quanto serve perché venga ricordato, e quanto basta per evitare che sparisca l’idea. Perché è l’idea ad avere il potere di fare preferire un prodotto (o una marca) a un’altra. Era così una volta, e per me lo è ancora.

 E oggi? Oggi mi dici tu cosa devo fare. Provo a darti un’opinione, sembra che tu l’accolga, ma poi no: la trimestrale è andata male, dobbiamo fare sell-out subito. Ok, benissimo, sono dalla tua parte, condivido il tuo obiettivo. Come lo facciamo? E tu: “abbiamo indetto una gara tra cinque agenzie per trovare un’idea wow”. Ma possibile che tutto quello che io so di voi non valga niente, che sia in gara per ogni piccola cosa? Non ci eravamo scelti per costruire insieme qualcosa? E poi: “c’è una piccola agenzia che mi ha proposto un minisito concorsuale a duemila euro. Tu quanti me ne chiedi?” Molti di più, per fare un lavoro fatto bene, ma non è questo il punto: il punto è: perché dobbiamo farlo? “Perché devo essere pronta tra un mese e costa poco. Il montepremi deve essere incluso, ovviamente”. Va bene, te lo faccio io. Tranquilla: si uccideranno per partecipare a un concorso senza idee e senza montepremi. Comunque facciamo tremila euro, e te lo faccio io. E poi?

E poi mi mandi i tuoi stagisti a dirmi parola per parola cosa scrivere, perché i testi dei miei copy non sono “engaging”, le call to action devono essere più emozionanti, l’immagine di sfondo è troppo gialla. Deve essere più “catching”. Sissignora, eseguiamo. “No, sbagliato, non intendevo quel font, ne vorrei uno più moderno, che trasferisca il concetto di freschezza, che renda il tutto più engaging (e due!).” Un font engaging??? Magari potremmo fare un video virale, che dici, già che ci siamo? Lo mettiamo su Youtube così tutti lo vedono. Certo, senza budget media, tanto di gente su Youtube ce n’è tanta… Scusa, ho esagerato.

Però così io lavoro dieci volte tanto, ci perdo soldi e dignità, faccio una cosa che (secondo me) ha poco senso per la tua marca, e in più mi sento in colpa per venderti –o provare a venderti- il tempo mio e di persone senior per fare un lavoro da niente, che potrebbe farti un’agenzia di ragazzetti inesperti che lavorano sotto dettatura. E ti costerebbe un terzo. Ah, già, eravamo partiti da lì. Sono stato io a convincerti a farlo con me…

Ma non è per questo che ti lascio. Ne abbiamo passate tante insieme, non basterebbe questo.

Ti lascio perché mi sembra che tu sia cambiata davvero. Che tu non creda più in quello in cui credevi e credevamo. Che l’ansia di fare, l’obbligo di risparmiare, la fatica di gestire numeri che non tornano ti abbiano trasformata. Una volta potevamo litigare, avere divergenze di opinioni, e ovviamente l’ultima parola era tua. È normale e giusto: sei il cliente. E il cliente per me ha sempre ragione, sono cresciuto credendo fermamente in questo antico principio. I vecchi vanno rispettati, i genitori ascoltati. E i clienti hanno sempre ragione.

Quel che penso davvero, mi rendo conto, è che il cliente ha quasi sempre ragione. Ma ha torto quando ti tratta come un esecutore senza cervello.

Ha torto quando inizia a mancare di rispetto a te o alle tue persone.

Ha torto quando riversa su di te le sue responsabilità.

Ha torto quando non si degna di trovare il tempo per un confronto da pari.

Ha torto quando non tiene fede ai propri impegni.

Ha torto quando attribuisce agli altri (ad esempio a un ufficio acquisti qualunque) le sue decisioni scomode.

Ha profondamente torto quando pensa sempre di avere ragione.

Sei cambiata. Probabilmente ti hanno fatto cambiare. Ti tagliano i budget perché le vendite vanno male. Lo so che hai provato a spiegare loro che così andrà sempre peggio, e hai perso la tua battaglia. Poi però hai smesso del tutto di combattere, fino a convincerti che abbiano ragione loro. E non hai provato piani alternative, ti sei adeguata al sistema. Ora cerchi anche tu il risultato nel breve, perché è eseguendo bene i compiti che ti sono stati assegnati che puoi fare carriera. Anche se gli ordini sono sbagliati. Alla fine il tuo è un lavoro, non una missione. Non salvi vite umane, del resto, nessuno di noi lo fa. Giusto, è vero. Ma è deludente, perché prima era anche un po’ una missione. Ed era più bello. E funzionava di più.

Non ti hanno solo tagliato il budget, ti hanno anche dato un team più piccolo e più inesperto. Bisogna fare con quel che c’è. Stagisti che ruotano ogni sei mesi, il tuo capo che ti riceve solo per farti notare che sei sotto il budget, senza dati una visione, senza fidarsi di una tua intuizione o eccitarsi per una tua idea. Ti capisco, stai male anche tu.

Del resto oggi non ci sono più imprenditori con figli a cui lasciare aziende solide, ci sono azionisti da accontentare nel breve, e top manager che devono portare a casa numeri in fretta, per poter trovare uno stipendio più alto in un’altra azienda. Tanto chi verrà dopo si arrangerà, darà la colpa ai predecessori e alle contingenze del mercato, taglierà teste suo magrado, e nel giro di un paio d’anni i conti dell’azienda torneranno in ordine. Così lui (o lei) potrà chiamare il suo amico cacciatore di teste per il successivo, e più ricco, giro di giostra. E tu? Diventerai come lui, oppure rimarrai a un piano più basso a gestire obiettivi più difficili con sempre meno persone. Quindi ti capisco, e non ce l’ho con te. Ma per il bene che ti voglio (e che mi voglio) preferisco evitare di proseguire oltre una relazione che non ha futuro, e ci porterebbe a farci ancora più male.

E in fondo, pensa anche a te: cosa la paghi a fare un’agenzia creativa se pensi di non averne bisogno? Oggi probabilmente ti serve un service al tuo servizio, senza orari e senza una cultura professionale basata sul pensiero e sulla consulenza. Se è così, però, non chiedere a me di cambiare, cerca qualcun altro. È più facile, e anche più onesto.

Magari ci ritroveremo tra qualche anno e scopriremo che i tempi saranno pronti per una seconda opportunità. O magari no. Chissà cosa ci riserva il futuro. Quel futuro che avremmo potuto aspettare insieme, un futuro sempre più complicato che da alleati avremmo potuto capire meglio. Perché senza il tuo punto di vista io sono monco. E senza la mia competenza tu sei incompleta.

 Pensaci. Non è vero che il nuovo mondo non è più fatto per certe storie d’amore. Anzi: è nelle difficoltà che stare insieme, stare vicini, unire le forze serve più che mai. I più grandi amori si esaltano quando tutto intorno cerca di ostacolarli. Le favole e la letteratura ne raccontano in ogni pagina.

Sarò un romantico inguaribile, ma io non smetto di credere che un’agenzia e un brand, condividendo un percorso con sincerità e passione, possano avere il loro lieto fine, anche contro i mostri di oggi. Guardati dentro e torna a crederci anche tu. Non farlo per me, fallo per te.

Io non ho smesso di farlo, e non smetterò mai.

Ti abbraccio forte.

Emanuele

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