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Google dichiara che non supporterà ‘identificatori alternativi’ ai cookies. Si riapre un conflitto tra ‘difesa della privacy’ e ‘internet freedom’

Ci risiamo: di nuovo Open Internet contro Walled Garden (anche se la definizione sembra passata di moda: si sente più raramente, ormai). D’altro canto la rivoluzione che attende l’internet con la scomparsa dei cookies di terze parti è davvero un cambiamento rilevante, benché la stragrande maggioranza dei cinque miliardi di utenti non si renda neppure conto delle dimensioni della cosa, né delle ricadute possibili sul mercato della pubblicità online. Un mercato globale da oltre 330 miliardi di dollari nel 2020, che sta già attrezzandosi per un missione non facile: non perdere attrattività, difendere la privacy e conservare o incrementare la quota di addressable advertising che, a partire dalle Connected TV e dal DOOH, sembra essere oggi il nuovo mantra, capace di diminuire le dispersioni e di massimizzare l’efficacia dei messaggi.

Ovviamente, in vista dell’oramai prossima abolizione dei cookies di terza parte, sono spuntate alternative capaci di rispettare le normative sulla privacy (per altro differenti nelle diverse parti del mondo – e questa rappresenta un’ulteriore complicazione) ed identificare l’utente-navigatore-mobile il più precisamente possibile, così da potergli servire la pubblicità più adatta in relazione alla sue personali preferenze e al contesto.

È di ieri però la notizia che Google ha dichiarato la propria volontà di ‘non lavorare su identificatori alternativi ai cookie’: uno statement chiaro – “Today, we’re making explicit that, once third-party cookies are phased out, we will not build alternate identifiers to track individuals as they browse across the web, nor will we use them in our products” – capace probabilmente di spingere in un angolo i prodotti, dallo Unified ID 2.0 di Trade Desk alla Quantcast Platform, che stavano faticosamente cercando di assurgere a ‘industry standard’ nell’Open Internet.

La posizione di Google, d’altronde, è esplicitamente in difesa della privacy degli utenti: “non riteniamo che servano sistemi di tracciamento individuale per indirizzare la pubblicità”, scrive in una nota David Temkin, Director of Product Management, Ads Privacy and Trust di Google: la soluzione alternativa e per nulla invasiva è la costituzione di gruppi omogenei, di FloC (Federated Learning of Cohorts) che, anonimizzando l’utente in gruppi non identificati e non identificabili, possano essere al bisogno prescelti come destinatari della pubblicità online, in vista di una sempre più concreta addressability.

Tutto bene, quindi? Chi si oppone è un ‘losco figuro’ che vuole continuare a mettere le mani dove non dovrebbe? Ovviamente no, la situazione è più complessa di così. Innanzitutto la presa di posizione di Google si basa anche sulla diffusione di Chrome, il browser che pesa oggi circa il 70% (alcune stime parlano addirittura del 75%) del mercato globale, garantendo a Google una conoscenza diretta – che è ovviamente riservata – degli utenti. “Google doesn’t sell your personal information to anyone”, assicura il gigante dei Tech. E ci mancherebbe altro: come aneddoto, il profilo Chrome di chi scrive conta 156 items differenti raccolti sulla rete, e l’unico dato errato riguarda la presenza di figli nel nucleo familiare. Costruire della ‘coorti’ su queste basi è molto più agevole, anche senza guardare a quei servizi utili e gratuiti che Google mette a disposizione di tutti, da Gmail a Maps, che sono altrettanti produttori di informazioni.

Konrad Feldman, Co-founder e CEO di Quantcast

“La decisione di Google di non supportare le iniziative di identity del settore rappresenta per editori e creatori di contenuti una pessima notizia”, ha dichiarato in una nota pubblica alla stampa Konrad Feldman, Co-founder e CEO di Quantcast. “Quasi 5 miliardi di persone si affidano all’Open Internet per accedere a informazioni, news, contenuti formativi e d’intrattenimento di qualità e affidabili. Google ancora una volta ha mostrato la volontà di danneggiare la rilevanza della pubblicità nell’Open Internet. Una mossa che andrà a completo vantaggio del motore di ricerca e di Youtube, che non verranno per niente influenzati da questa operazione. Siccome nell’Open Internet diventa ancora più difficile erogare una pubblicità efficace o addirittura effettuare una misurazione dell’efficacia, molti degli investimenti pubblicitari entreranno direttamente nelle casse dei giganti del tech a discapito di un internet libero e aperto”.

Anche questa dichiarazione è evidentemente di parte (proprio ieri Quantcast ha annunciato il lancio di una piattaforma di audience intelligente), ma non si può negare abbia un fondo di verità indiscutibile. E nel contrasto con l’Open Internet aperto dalla mossa di Google non si possono dimenticare gli altri protagonisti del mondo ‘walled’, soprattutto Facebook e Apple.

La casa di Cupertino, molto rapida nell’escludere i cookie dalle ultime release del suo browser Safari, può contare sulla combinazione tra hardware di proprietà e software originale, che la esenta da queste prese di posizione, onde non dar vita a polemiche, ma possiede un controllo ferreo su tutti contenuti veicolati sui propri device e sull’App Store.

Facebook invece, grazie anche agli apporti di Instragram, Whatsapp, e del proprio Messager, sta efficacemente veicolando un’immagine di Internet-senza-Internet, autonoma e capace di tutto, dal social commerce ai pagamenti, alla tv in streaming, in un tentativo di porsi al centro delle abitudini e delle necessità quotidiane. Come WeChat in Cina, insomma. Ma ricordiamoci che le nostre norme sono ben diverse (e per fortuna!).