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In principio era solo Neil Young, ora la ‘massa d’urto’ sta crescendo. Ma la domanda è: ‘l’audience vince sempre su tutto?’

Spotify, abbiamo un problema. Questa parafrasi del celeberrimo messaggio inviato da Jack Swigert, pilota del modulo di comando delle celebre ma sfortunatissima missione lunare Apollo 13, sarà certamente risuonata tra i dirigenti di Spotify nella settimane scorse, quando si è poco a poco costituita una ‘massa d’urto’ contraria a una collezione di podcast della piattaforma.

Prima oltre 200 medici e scienziati si sono coalizzati, chiedendo che la piattaforma ‘immediately establish a clear and public policy to moderate misinformation’. Poi si sono aggiunti alcuni cantanti e autori celebri, per primi i canadesi Neil Young e Joni Mitchell, che hanno chiesto all’operatore musicale europeo di effettuare una scelta precisa, altrimenti avrebbero ritirato le loro canzoni. Posizione che è stata seguita, con alcuni personali aggiustamenti, da altre star della musica, come Gilles Vigneault, i Foo Fighters, Barry Manilow, Nils Lofgren, India Atìrie, Graham Nash (del celebre gruppo Crosby, Still, Nash & Young) o perfino Jovanotti, che si limitato a una dichiarazione di principio senza ritirare le proprie canzoni.

Il problema a cui si faceva riferimento all’inizio è che i podcast in questione sono quelli di Joe Rogan, un personaggio che è stato pagato 100 milioni di dollari nel 2020 per un contratto di esclusiva. ‘The Joe Rogan experience’ è di gran lunga il podcast più seguito su Spotify, con un’audince media di 11 milioni di ascoltatori e cadenza quotidiana, dal lunedì al venerdì. L’autore, già stand up comedian e commentatore televisivo dei combattimenti di arti marziali miste (MMA), non è d’altra parte in posizione ferocemente ‘no vax’, i suoi podcast vedono una composita presenza di interlocutori, che spaziano da Oliver Stone al Generale H.R. MacMaster, dall’artista digitale Beeple (sì, quello dell’NFT venduto per più di 60 milioni) al rapper Snoop Dogg, allo scrittore Chuck Palahniuk. Sono piuttosto lunghi, da 2 ore e mezza a oltre tre ore ciascuno, e riescono a trattenere le audience incredibili citate in precedenza solo con il suo volto a colloquio con i vari interlocutori.

 

I podcast oggetto della contestazione – in primo luogo quelli con il dottor Robert Malone e con il dottor Peter McCullough – sono i colloqui con medici sostenitori di posizioni diverse dalla maggioranza, o ‘alternative facts’, come li chiamava Donald Trump quando era presidente. Il fatto è che Joe Rogan non si definisce supporter di questa posizione, ma dà loro una spazio molto ambito per esporarla, quando non promuoverla. Alcune affermazioni di questi podcast sono state sottoposte a fact checking da parte della BBC e sono state giudicate sostanzialmente false. Ma anche le affermazioni meno sostanziate hanno una ricerca, una rilevazione, uno studio a loro sostegno, scovato nella miriade di lavori fatti finora sul Covid: è su questo cherry picking a tema che si basano molte delle posizioni più controverse sul tema.

D’altra parte Joe Rogan non si è mai dichiarato a favore delle tesi dei suoi interlocutori: egli afferma di porre il dubbio, e di voler trovare risposte a 360°. D’altra parte – sostiene – sono molte le affermazioni fatte dall’inizio della pandemia che erano rigettate come sacrileghe, e pochi mesi dopo sono state accettate senza battere ciglio, come evidenze scientifiche. Si va dall’inutilità delle mascherine per i sani all’impossibilità dei vaccinati di ammalarsi o di trasmettere il virus. Questa posizione ‘agnostica’ gli ha consentito di accettare senza problemi i warning che Spotify ha premesso a tutti i podcast sul Covid, anzi dando loro il benvenuto con un proprio podcast di una decina di minuti.

“Vogliamo che tutti i contenuti musicali e audio del mondo siano disponibili per gli utenti di Spotify”, ha affermato l’azienda in un comunicato. “Da ciò deriva una grande responsabilità nel bilanciare sia la sicurezza degli ascoltatori sia la libertà degli autori. Abbiamo stabilito norme precise sui contenuti e abbiamo rimosso oltre 20.000 episodi di podcast relativi al Covid dall’inizio della pandemia. Ci rammarichiamo per la decisione di Neil Young di rimuovere la sua musica da Spotify, ma speriamo di dargli il bentornato presto”.

Liquidata in questo modo la vecchia gloria, un buffetto a Rogan e via così. Non per rispetto del Primo Emendamento della Costituzione USA, quello sulla libertà di parola, perché Spotify è una società privata e può fare quello che preferisce, come ha dimostrato Twitter bannando a vita l’ex-Presidente. Non perché memore dell’aforisma di Voltaire sul dare la vita per permettere di parlare a chi dice cose non condivisibili. Ma perché assumere una posizione da ‘editore’, come era stato richiesto da più parti, avrebbe posto Spotify in una posizione insostenibile, corredata da un’infinita serie di grane, che la piattaforma invece può elegantemente bypassare dichiarandosi ‘neutra’ rispetto ai contenuti presenti. Fino a quando?