Siccome non se ne è parlato abbastanza (auto-ironia), ci sono tre cose che vorrei aggiungere sulla nuova campagna Nike. E più della campagna in sé, queste riflessioni nascono da come se ne è parlato.
La confusione fra strategia e tattica. Un sedicente esperto di strategie di comunicazione su Il Fatto ha definito questa campagna un esempio della capacità di Nike di creare “strategie di comunicazione istantanee”. Tralasciando il fatto che l’idea che Nike si sia svegliata il martedì e domenica 2 settembre la campagna fosse pronta è risibile (e indicativa di quanto volatile sia il termine esperto), l’espressione “strategia istantanea” è prova di come il termine strategia venga usato un tanto al chilo. Kaepernick è sotto contratto Nike dal 2011. La sua protesta inizia nel 2016. Adidas e Under Armour hanno messo Nike sotto pressione dal 2015, e per respingerle Nike sa di dover rimanere culturalmente rilevante. Che le elezioni mid-term fossero in calendario per novembre 2018 si sa da sempre – immagino anche Nike ne fosse al corrente. Pensare che Nike abbia deciso di lanciare questa campagna per caso mentre il dibattito politico si gonfia, è risibile quanto l’idea di strategia istantanea. Questa campagna è la punta di una strategia che è cominciata almeno nel 2015, non una tattica “istantanea” dettata dal momento.
La glorificazione del pensiero a breve termine. La rapidità con cui il giorno dopo il lancio della campagna si è detto che la Nike avrebbe pagato cara la scelta, probabilmente sull’onda emotiva creata da quattro suprematisti bianchi che bruciano le loro vecchie Revolution 4 (l’ironia del nome). Sarebbe bastato aspettare cinque giorni (cinque, non un trimestre) per vedere le cifre delle vendite online crescere rispetto all’anno precedente e il titolo riprendere a crescere in borsa. Anche questi sono indicatori di breve termine, ma questo è il punto: fluttuazioni così evidenti sono eventi anomalie che non permettono di capire davvero l’impatto sulla marca. Questo pensiero a breve termine è uno dei problemi principali del marketing, se pensiamo che la durata media di un CMO è ormai solo 42 mesi.
La normalizzazione dell’anormale. Capisco che noi del marketing viviamo in una bolla dorata e l’idea di “consumatori” sia ormai un’astrazione totale, ma che ancora nessun giornale statunitense abbia scritto nulla sul significato della protesta di Colin Kaepernick dopo che ieri l’ennesimo Afroamericano è stato ucciso per errore (una poliziotta l’ha scambiato per un intruso mentre era lei ad essere entrata nella casa sbagliata, e non è uno scherzo), non è un bel segno: dimostrerebbe che l’intesse è solo verso la campagna e non verso ciò a cui Kaepernick vuole dare visibilità. Se così fosse, “Believe in something. Even if it means sacrificing everything” sarebbe già uno slogan vuoto. Speriamo solo che Kaepernick non diventi come Che Guevara: una maglietta. Questo sarebbe il risultato peggiore per una presa di posizione coraggiosa.
Luca Vergano, Strategy Director Clemenger BBDO Melbourne.