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Paese che vai…stereotipo che trovi?

Avv. Federica Furlan

E’ notizia di pochi giorni fa che il governo britannico abbia veicolato una campagna di comunicazione volta a sensibilizzare la popolazione sull’opportunità di stare a casa per ridurre i rischi di contagio da Covid 19 (variante inglese).

Se si trattasse solo di questo, verrebbe – giustamente – da chiedersi dove starebbe la notizia.

Ma la verità è che la ‘news’ ha avuto particolare risalto per un ‘piccolo ed anacronistico’ particolare. Cuore del messaggio l’immagine di una casa nella quale sono state rappresentate delle figure femminili stilizzate intente a fare le pulizie o accudire i figli.

Sembra quasi di rivivere quanto successo in Italia qualche mese fa in occasione del lancio della app di contact tracing del Governo Italiano ‘Immuni’. Anche in quel caso, infatti, le immagini illustrative presenti nelle istruzioni di funzionamento ed identificative degli individui di sesso maschile e femminile, rappresentavano gli stessi intenti, rispettivamente, in attività stereotipate maschili o femminili.

Ebbene, anche in Inghilterra la questione non è passata inosservata. Le critiche, oltre a soffermarsi sull’esistenza di una chiara normativa autodisciplinare pubblicitaria nazionale, che vieta espressamente lo stereotipo di genere, hanno anche evidenziato l’inopportunità della campagna di sensibilizzazione governativa in ragione del fatto che proprio le difficoltà di gestione familiare imposte dall’epoca pandemica hanno seriamente minato la stabilità lavorativa delle donne, che più frequentemente ed a causa della necessità di dover gestire figli e famiglia, hanno perso il lavoro.

Sembra, quindi, che un male comune ai governi sia quello di sottovalutare l’importanza ed il valore della comunicazione che, in situazioni limite come quella che stiamo vivendo, non contribuisce certo a migliorare la credibilità e l’efficacia del messaggio veicolato. A maggior ragione se, come accaduto nel caso del governo britannico, si prendono le distanze e viene dichiarato che il messaggio non rispecchi la visione governativa del ruolo della donna.

Le regole a tutela della buona e corretta comunicazione, dunque, non possono e non devono passare in secondo piano nemmeno (o, per alcuni, soprattutto) se l’inserzionista è l’autorità statale.

Sappiamo che le norme a tutela della lealtà e correttezza della comunicazione non sono chiamate a sindacare il buon gusto. Tuttavia, non può dimenticarsi che la comunicazione deve anche rifuggire ogni forma di discriminazione, sia essa esplicita (famoso il caso di una nota compagnia di navigazione che promuoveva le proprie tratte utilizzando il claim ‘Il nostro personale è tutto italiano’) o implicita, come potrebbe essere, appunto, il caso di rappresentazioni stereotipate di genere.

Si tratta più in generale, infatti, del rispetto dei principi posti a tutela della dignità della persona (tutelati e garantiti in primis, in Italia, dalla Costituzione). Principio che forse più di ogni altro non può cristallizzarsi in sterili elencazioni di ciò che è ammissibile e ciò che non lo è e che deve necessariamente adattarsi alla mutevole sensibilità sociale, evolvendosi di conseguenza.

Pare proprio che l’approccio evolutivo non sia il punto di forza della comunicazione governativa né italiana né, a quanto pare, britannica. Mal comune mezzo gaudio? Direi di no e, anzi, propenderei per il contrario.

Avv. Federica Furlan