“Si è appena concluso il Festival internazionale della creatività di Cannes, l’evento di maggior rilievo nel settore della pubblicità che culmina con la premiazione dei Lions Awards.
Un rito pagano officiato ogni anno in Costa Azzurra per discutere del mercato, fare relazione, seguire interventi e seminari ma, soprattutto, per provare a portare a casa un leone.
Un rito riservato a una comunità internazionale, ma pur sempre ristretta, che negli ultimi anni ha aperto sempre più le porte alla contaminazione con altri generi.
Una industry che è sempre stata piuttosto refrattaria al richiamo delle sirene spiaggiate a Cannes: la moda.
Quest’anno, però, ha deciso di giocarsi il jolly.
Anne Wintour quella vera, non la protagonista de ‘Il diavolo veste Prada’, l’editor in chief di Vogue Usa e direttore artistico di Condé Nast, è atterrata sulla Croisette per uno speech ai Cannes Lions.
In realtà, quella che da cartellone doveva essere una conversazione con Christopher Bailey si è trasformata in una lunga introduzione, dal sapore di riconoscimento alla carriera, da parte del Ceo di Burberry. E poi in uno studiato monologo.
Cosa resta dell’intervento al netto di un po’ di aneddoti per fashion addicted?
Sostanzialmente le quattro lezioni che sostiene aver imparato dall’avventura digital di Condé Nast:
- Puntare in alto: spingere i limiti e mantenere standard molto alti.
- Osare di essere diversi: credere nelle proprie idee e visione creativa.
- Focalizzarsi sugli obiettivi: di nuovo, puntare in alto e rimanere concentrati.
- Farsi amici interessanti: fare cose, vedere gente.
Ho provato a riflettere su cosa spinga Anne Wintour a volare in Costa Azzurra, sul perché editoria e moda si rendano improvvisamente conto dell’esistenza dell’advertising.
Non che la moda non abbia mai fatto pubblicità. Il solido triangolo brand, editore e fotografo (più l’invisibile ma fondamentale quarto lato rappresentato dalle PR) ha definito le sorti della industry per lungo tempo.
Ma era qualcosa più simile all’espressione artistica che alla comunicazione tout court. Per grammatica, espressione e fruizione.
Cosa è cambiato allora? Tutto.
Prima è arrivato il digital a increspare la calma apparente di un sistema perfettamente autoreferenziale. Sembrano passati secoli da quando sui forum si cominciava a parlare dei fashion brands. Ma quello non venne preso in considerazione neppure come campanello d’allarme. Erano i primi piccoli, impercettibili segnali del fatto che le persone prima o poi avrebbero espresso la propria opinione al di fuori degli spazi canonici.
Vennero le fashion bloggers a minare le fondamenta editoriali e mentre si cominciava ad arruolarle nelle proprie fila, all’improvviso tutti fotografi grazie a Instagram. Il triangolo si era definitivamente rotto (Il lato PR no. Quello resisterà ad libitum).
Nel frattempo la stampa perdeva colpi nelle edicole e la riconversione digitale delle redazioni richiedeva più tempo della fondazione di Roma.
Oggi i publisher fanno le agenzie, propongono branded content e native advertising. Proprio Condé Nast, con la neonata 23 Stories ha appena confezionato per Gucci un film in 4 episodi per la regia di Gia Coppola. Nessuna agenzia. Solo il publisher, o quello che è diventato, e il brand.
Perché oggi i nuovi unicorni si chiamano millennials e i fashion brand sono tutti a caccia. Con tutti i mezzi a disposizione. Che spesso, in questo specifico ambito, sono superiori per conoscenza del target, a quelli delle agenzie.
Difficile per un’agenzia di comunicazione sedersi al tavolo di un fashion brand e parlare di tribes oppure raccontare a Demna Gvasalia, Alessandro Michele o Olivier Rustaing il modo migliore di utilizzare la rete o ancora spiegare come Kanye West, Beyoncè e in generale il music merchandising stiano ridefinendo il concetto distributivo. O anche solo capire perché il “see now, buy now” stia facendo fibrillare l’intero fashion system.
Il pubblico della moda, ormai lo sanno anche i sassi, vuole più di un prodotto. In questo non dissimile dagli altri pubblici.
È alla costante ricerca dell’esperienza. Quell’esperienza, che veniva tramandata oralmente da pochi eletti, un tempo si chiamava fashion show. Le sfilate hanno decisamente contribuito a mitizzare gli stilisti e il settore in generale.
Lo streaming ne ha inizialmente amplificato l’audience ma nel tempo ne ha edulcorato il messaggio. Oggi che lo show è diventata ripetitiva consuetudine, la differenza la fa chi va oltre intersecando mezzi e linguaggi. In questo senso va letta l’operazione GucciGhost e il suo rimpallo su Instagram e Snapchat tra account ufficiali e meno.
Alla fine penso che Anne Wintour non sia venuta a raccontare molto. Non l’ha fatto.
Credo sia planata su Cannes con l’intenzione da un lato di dire agli executives di agenzia ‘Hey, noi publisher vi stiamo soffiando il lavoro perché abbiamo gli insight, sappiamo raccontare storie e soprattutto le sappiamo distribuire’, dall’altro di guardare negli occhi i creativi per fargli capire che le agenzie non sono più il posto della creatività, che ci sono nuovi lidi in cui andare a misurarsi, che la moda ha bisogno anche e soprattutto di loro.
Quei quattro punti, se ci pensate bene, non assomigliano al perfetto annuncio per un creativo d’agenzia?
Come agenzia, trovo assolutamente stimolante questa nuova sfida con i publisher. Dopo averli accompagnati per mano nelle lande digitali agli albori del fenomeno, accolgo con piacere il confronto. Perché anche noi, nel frattempo, abbiamo studiato.
E perché continuo a pensare che l’agenzia rappresenti ancora l’habitat naturale per un creativo. Anche, e soprattutto, se si confronta con un ambito stimolante come il fashion”.
Massimiliano Chiesa, Co-Founder & Chief of Creative Innovation di The Big Now