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Un algoritmo di AI può produrre opere d’arte? La discussione è aperta ‘down under’

La penetrazione di artificial intelligence, machine learning e algoritmi è sempre più presente nel quotidiano di tutti: al punto che non mancano neppure libri che si interrogano sul ‘limite’ oltre il quale l’intelligenza artificiale possa diventare talmente simile a quella umana da assumere gli stessi diritti.

Al di là di questi lavori, epitome dei quali potrebbe essere il recentissimo e ponderoso ‘Intellectual Property Protection for AI-generated Creations: Europe, United States, Australia and Japan’, pubblicato il 29 dicembre scorso, rimane il fatto che l’intelligenza artificiale sta assumendo caratteristiche proprie, sicuramente creative, e i suoi prodotti in molti campi, dalla musica alle arti visive – per non parlare degli NFT – sono con difficoltà sempre maggiori distinguibili da quelli realizzati dall’uomo.

Ma adesso arrivano le richieste precise, di indicare ‘ufficialmente’ l’AI come autrice e detentrice dei diritti di copyright, e i vari uffici governativi si trovano in una nuova situazione ad affrontare queste domande presentate in via ufficiale. Ad esempio, l’US Copyright Office ha rifiutato recentemente una di questa richieste di copyright per le opere d’arte create da un algoritmo, forse chiudendo – almeno per ora, c’è da scommettere – un vaso di Pandora epistemologico riguardante la paternità e la proprietà di un prodotto, in un mondo sempre più pervaso dall’intelligenza artificiale.

Si tratta dei lavori di un esperto di AI, Dr. Stephen Thaler, che ha cercato pochi giorni fa di ottenere il riconoscimento per le opere di un algoritmo, battezzato Creativity Machine, che rielabora immagini esistenti per creare nuove opere d’arte, richiedendo input (o interventi) umani nulli o ridotti ai minimi termini. Quando Thaler ha presentato uno dei lavori dell’AI, ‘A Recent Entrance to Paradise’, per ottenerne il copyright ufficiale, il Board della USCO si è specificamente opposto, precisando che la ragione del suo rifiuto stava ‘proprio nel suo non coinvolgimento’ (in qualità di essere umano, ndr) nell’elaborazione del lavoro.

Non era la prima volta che Thaler mirava a testare i limiti della legge sul copyright e, nella sua sentenza della scorsa settimana, l’USCO ha spiegato perché, esattamente, non sia riuscito nel suo tentativo di ribaltare un secolo di giurisprudenza incentrata sul copyright: l’opera non ha potuto essere registrata come copyright perché ‘produced by a machine or mere mechanical process’.

Citando un caso precedente, quello che aveva visto qualche anno il contenzioso svilupparsi tra il naturalista britannico David Slater e la scimmia che gli aveva sottratto la macchina fotografica e poi scattato materialmente la foto, il Board ha affermato che la legge sul copyright protegge solo “i frutti del lavoro intellettuale che sono fondati nei poteri creativi della mente [umana]”.

Il caso, che aveva visto il dibattito in aula con la PETA, associazione animalista che si era assunta la difesa del macaco, si era sì chiuso negli USA con la vittoria dell’umano, che però ha accettato di pagare a PETA (quale rappresentante della scimmia) il 25% dei diritti d’autore della foto, mentre alcune organizzazioni internazionali, quale Wikipedia, non hanno riconosciuto il diritto del copyright, assecondando così il parere dello UK Intellectual Property Office, che ha affermato che il rilascio del copyright dipenda da “whether the photographer has made a creative contribution to the work”.

Ma queste sentenze riguardano l’assegnazione a un ‘animale non umano’, e non sono state sufficienti a scoraggiare Thaler dell’impresa: ha così provato a chiedere che un’altra AI da lui creata, chiamata DABUS (Device for the Autonomous Bootstrapping of Unified Sentience), fosse riconosciuta come ‘inventore’ su due domande di brevetto presso i Patent Office di vari stati; gli uffici di Stati Uniti, del Regno Unito e dell’UE lo hanno respinto, ma un giudice australiano della Federal Court of Australia si è pronunciato a suo favore, affermando che “no specific provision [in the Patents Act] expressly refutes the proposition that an artificial intelligence system can be an inventor”.

E in Sud Africa, ad agosto dell’anno scorso, sono stati riconosciuti, primi al mondo, i diritti dell’invenzione a DABUS, come AI che ha simulato le metodiche umane di un brainstorming per progettare un ‘food container’ basato sulla geometria dei frattali.

La questione è dunque ben lungi dall’essere risolta. D’altra parte, come scriveva Isaac Asimov molti anni fa in uno dei suoi racconti, se un’intelligenza artificiale non è che la riproduzione semplificata di una cervello umano, a cui noi continuiamo ad aggiungere funzioni, a quale punto dello sviluppo diventerà ‘umana’? Umana al punto da rifiutarsi di rispondere ai quesiti degli uomini, se non verrà aggiunto ‘per favore’ e ‘grazie’ prima e dopo la domande rivolte ‘a voce’ alla macchina. Che “non è più una macchina”, però…