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Più autentici del reale, però virtuali: ecco perché interessano tanto ai brand (e non solo a quelli della moda)

Lil Miquela

Durante la Fashion Week di Milano si è avuta l’ultima conferma che il settore della moda è già molto orientato al virtuale: Dolce&Gabbana, per citare una griffe come esempio, ha creato una linea in stile fantasy che trae spunto da avatar e mondi paralleli. Rihanna, invece, si è affidata a Shudu, una virtual influencer, per promuovere il suo brand Fenty Beauty, mentre Prada e Chanel hanno collaborato con Lil Miquela, il personaggio creato da Trevor McFedries e Sara DeCou.

Diventa quindi quindi spontaneo chiedersi: chi sono i virtual influencer? Che cosa rende questi creator virtuali così interessanti e per quali ragioni (e obiettivi) i brand li stanno già (spesso) preferendo o affiancando a quelli umani?

Shudu

Innanzitutto, iniziamo dalle basi: i virtual influencer sono avatar creati tramite la tecnologia CGI (Computer-Generated Imagery), assumendo un aspetto creato da zero oppure basato su persone reali, che però vengono ‘riprodotte’ (e adattate) in un ambiente virtuale. In entrambi i casi, comunque, il virtual influencer non esiste. Anche nel caso, abbastanza raro in verità, in cui creator reale crei il suo avatar, quest’ultimo non viene considerato un ‘virtual influencer’ in quanto non è ‘totalmente digitale’ proprio perché è la raffigurazione di una persona reale.

Fatta chiarezza e delimitato il campo di gioco, passiamo all’esame. Innanzitutto i virtual influencer sono nati in Asia, dove spopolano a tal punto che le creazioni di intelligenza artificiale hanno generato un mercato pari, secondo le stime di Statista, a quasi 14 miliardi di dollari nell’anno 2021. Il punto è che in Asia, dove le autorità di alcune nazioni controllano la libertà di espressione (eufemismo per non citare esplicitamente la Cina) gli influencer virtuali sono particolarmente graditi rispetto ai personaggi in carne e ossa. Un passato senza scheletri nell’armadio, flessibilità a lavorare 24 ore su 24 e totale controllabilità. Risultato: nessun danno alla reputazione o pericolo di intaccare l’immagine di un grande brand. Ricordate l’imbarazzante dietrofront con pubbliche scusa in cinese da parte di Domenico Dolce e Stafano Gabbana per una campagna pubblicitaria che non era piaciuta a Pechino? La cautela, quando si opera nel mercato più grande del mondo, così rigidamente controllato dal ‘grande fratello’ di orwelliana memoria, è d’obbligo, e per qualsiasi azienda è meglio una verifica interna che un pubblico svergognamento, come non di rado è accaduto.

Bangkok Naughty Boo

Ed ecco allora gli influencer asiatici che si diffondono anche al di fuori della Cina, quali il thailandese Bangkok Naughty Boo: capelli al neon, pelle praticamente perfetta, androgino e decisamente eccentrico, il primo cyber influencer non binario; oppure il sudcoreano Rozy, il primo influencer virtuale del paese che si è assicurato oltre 100 sponsorizzazioni; o l’indiana Kyra, influencer digitale che si descrive come una studentessa universitaria e aspirante modella di 22 anni di Nuova Delhi. E, ancora, la bellezza orientale, in stile kawaii, di Imma Gram, star di Instagram in Giappone ma famosa in tutto il mondo. Imma, una parola che in giapponese si traduce con ‘ora, adesso’, potrebbe essere una ragazza molto carina e alla moda, se solo fosse vera…

Imma Gram

E la corsa è stata aperta anche in Occidente: gli influencer virtuali richiedono sì un budget importante per la loro creazione, ma non per lanciare e realizzare campagne marketing. Ovviamente, tecnologie come l’artificial intelligence (AI) e la grafica 3D incidono sul costo, ma se consideriamo le attività di branded content il costo potrebbe essere inferiore rispetto a quello previsto per un progetto con influencer reali. I costi di produzione da sostenere, tendenzialmente, sono quelli per la realizzazione 3D ed eventualmente quelli di contratto con chi detiene i diritti del virtual influencer. Gli influencer ‘avatarizzati’ sono dotati di una versatilità ancora più estesa rispetto alle loro controparti in carne ed ossa, poiché si tratta di personaggi in grado di superare i confini della realtà concreta. Trattandosi di influencer creati ad hoc, questi profili possono facilmente adattarsi ed evolvere insieme alla brand identity e ai valori dell’azienda.

Abbiamo citato dello sbarco degli influencer virtuali nella moda, ma la loro espansione non è limitata al fashion. In ambito automotive, ad esempio, la prima Casa ad aver colto le potenzialità del connubio tra robotica e influencer marketing è stata Porsche: attraverso l’unità di venture capital Porsche Ventures, il produttore di auto sportive ha annunciato di aver predisposto un investimento strategico con la società cinese iMaker, uno dei principali fornitori di influencer virtuali ed ecosistemi digitali. Come riporta una nota ufficiale, Porsche “collaborerà con iMaker nel campo degli scenari applicativi digitali e degli ecosistemi digitali in-car, rendendo i veicoli una parte importante della vita digitale e dell’intrattenimento dei consumatori, oltre a creare un viaggio digitale conveniente, senza soluzioni di continuità e migliore per i clienti”.

La lista potrebbe proseguire. E proseguirà, allargandosi a tutti comparti dove il marketing e il digitale sono attivi. Esiste infatti anche un’altra importante ragione dello spostamento della aziende e dei brand verso la dimensione ‘virtuale’: l’avvento del Metaverso. Oggi tutti brand si stanno accorgendo che l’universo del cyberspazio rappresenta un’occasione per ampliare le proprie opportunità, ad esempio creando community virtuali integrate a quelle fisiche e proponendo esperienze immersive, conferendo al brand stesso un’aura contemporanea, tecnologica, al passo coi tempi.

Sarà dunque il Metaverso a condurre i cyber influencer alla definitiva affermazione?