L’App Store di Apple ha incassato più di 64 miliardi di dollari nel 2020, secondo un’analisi della CNBC, uno dei principali siti di analisi finanziaria. Questo si traduce in un deciso aumento rispetto agli anni precedenti, circa 50 miliardi nel 2019 e 48,5 miliardi nel 2018, suggerendo che la crescita delle vendite di App Store ha accelerato fortemente durante la pandemia Covid-19, poiché le persone si sono rifugiate a casa e hanno speso più tempo e denaro in app e Giochi.
Secondo l’analisi della CNBC, i ricavi dell’App Store sono cresciuti del 28% nel 2020, a fronte del 3,1% di crescita nel 2019. Uno scenario estremamente positivo per l’App Store, dunque, se non fosse che in questi ultimi mesi si è andata allargando anche la querelle giudiziaria con uno dei brand attivi nell’industry della musica in streaming, Spotify, le cui ultime evoluzioni hanno portato la Commissione Europea ad aprire indagini su due diversi ambiti che interessano l’App Store.
Una per appurare se le regole di Apple per gli sviluppatori che riguardano la distribuzione delle app su App Store infrangano le nome vigenti in Europa in merito alla competizione commerciale. La seconda invece per capire se il comportamento di Apple in relazione ad Apple Pay viola le regole di concorrenza dell’UE. Nel caso dell’App Store, le indagini riguardano in particolare l’uso obbligatorio del sistema di acquisto in-app proprietario di Apple e le restrizioni sulla capacità degli sviluppatori di informare gli utenti dalla propria app sull’esistenza di possibilità di acquisto alternative più economiche al di fuori del negozio digitale di Apple.
Spotify, sostanzialmente, sostiene che, avendo Apple il proprio servizio di musica in streaming, Apple Music, le condizioni imposte ai fornitori di altri servizi analoghi dall’App Store risultino penalizzanti e impediscano ai consumatori di ottenere i vantaggi di una sana concorrenza. E in prima battuta la Commissione Europea ha concordato sul tema, in misura sufficiente a predisporre i necessari approfondimenti e prevedere i possibili rimedi.
Immediata, o quasi, anche la replica di Apple, che con una dichiarazione ufficiale rilasciata alla testata USA ‘The Verge’ ha mantenuto ferma la propria posizione, rivendicando il fatto che l’App Store rappresenti per i partner qualcosa di ben diverso da un rischio, vestendo più che altro il ruolo dell’opportunità.
“Spotify non paga alcuna commissione ad Apple per oltre il 99% dei suoi utenti e paga solo il 15% di commissione sulla parte rimanente, di coloro che hanno acquisito tramite App Store”, questa in sintesi la replica di Cupertino. “Al cuore di questa vicenda c’è la richiesta di Spotify di poter promuovere offerte alternative sulla loro app per iOS, pratica che nessuno store al mondo consente. Ancora una volta, vogliono dall’App Store tutti i benefit, ma non pensano di dover pagare qualcosa per questa agevolazione. La tesi della Commissione per conto di Spotify è l’opposto della concorrenza leale”.
Una posizione dura e precisa, ma un po’ fuori fuoco, perché appare naturale che Spotify non ricavi nulla dalla app gratuite, scaricate dalla stragrande maggioranza degli utenti, mentre il 15% è solo per quelle aziende che ricavano meno di un milione di dollari dall’App Store. Per tutti gli altri il primo anno è sempre il 30%. Inoltre, per quanto concerne il ricorso alla Commissione Europea, a Spotify si è aggiunto anche Rakuten (un distributore di e-book, audiolibri, contenuti video e televisivi) con le medesime rimostranze. Che non si tratti solo di una posizione di principio è dimostrato anche dal comportamento di Netflix, il maggior distributore di contenuti VOD che, a differenza di quanto accade sul Google Play, sull’App Store ha solo una versione gratuita della propria app, e lascia all’intuizione degli utenti – non potendo indicarlo in alcun modo – il capire che per iscriversi al servizio è necessario andare sul sito dell’azienda.
La contesa legale è solo ai primi passi, e ci vorranno probabilmente anni per venirne a capo con una sentenza definitiva e i possibili appelli. Ma le premesse sono tutt’altro che favorevoli ad Apple. Innanzitutto le dichiarazioni di Margrethe Vestager, Commissario europeo per la concorrenza, sono state abbastanza esplicite, pur con tutte le cautele del caso: “Le app mobile hanno cambiato radicalmente il modo in cui accediamo ai contenuti. Apple ha imposto delle regole per la distribuzione di app agli utenti di iPhone e iPad, e sembra che abbia ottenuto il ruolo di controllore quando si tratta di distribuzione di app e contenuti. Dobbiamo assicurarci che le regole di Apple non distorcano la concorrenza nei mercati dove Apple compete con altri sviluppatori di app, per esempio con il suo servizio di streaming musicale Apple Music o con Apple Books. Ho perciò deciso di approfondire le regole dell’App Store e la loro conformità alle regole di competizione europee”.
E che non si tratti solo di una minaccia lo dimostra, ad esempio, il caso Microsoft-Internet Explorer, sanzionata nel 2014 con una multa di 561 milioni di euro per non aver rispettato i patti sanciti nel 2009. Anche in quel caso, l’azienda di Redmond era stata accusata di abuso di posizione dominante sul mercato, per non aver dato agli utenti la possibilità di scegliere browser alternativi a Internet Explorer, inserito di default all’interno del sistema operativo Windows 7, e aveva accettato di integrare una schermata di avvio che consentiva di scaricare browser diversi da Explorer. Ma nel 2012, in occasione di una patch, questa schermata era sparita: di qui la multa. E Microsoft non aveva mai impedito il download dei browser alternativi, si era limitata a ignorarli. Analoga, per importo della sanzione e le motivazioni, anche la vicenda, protagonista sempre Microsoft, che aveva visto il software Media Center nel mirino dei Commissari.
Per dare un’idea della lunghezza di questa procedure di infrazioni alle norme della concorrenza, già nel 2011 erano emerse le prime attenzioni delle authority belga e francese per l’allora nuovo servizio di abbonamenti di Apple per l’acquisto di riviste, giornali video e musica sul proprio App Store: ci si chiedeva allora se fosse lecito, senza che questo configurasse un abuso di posizione dominante, che Apple trattenesse per sé il 30% di tutte le transazioni passate obbligatoriamente attraverso la sua piattaforma e se questa pratica non fosse anticoncorrenziale.
A distanza di dieci anni non si è avanzati di un passo sul tema specifico, ma in questi anni la Commissione Europea ha acquisito esperienza e potere. Oggi l’eventuale sanzione per comportamento anticompetitivo di Apple potrebbe arrivare al 10% del suo fatturato annuo, ossia fino a 27 miliardi di dollari se si considerano i numeri del 2020. E, cosa forse ancora più preoccupante dell’importo della multa, Apple potrebbe dover apportare modifiche al proprio modello di business.
Dopo le multe a Google, per abuso di posizione dominante, di 4,34 miliardi, e per violazione delle norme antitrust di 1,49 miliardi – condanne peraltro appellate di fronte alla Corte di Giustizia Europea – è dunque venuto il turno dell’azienda di Cupertino, prima al mondo per capitalizzazione borsistica, di essere sottoposta alle occhiute indagini della Commissione?