Proviamo a fare gli ‘avvocati del diavolo’, ed esaminare il PNRR con un occhio critico, mettendo in evidenza aree in cui gli sforzi di pianificazione non si sono forse concentrati a sufficienza su alcuni temi chiave. In particolare sulla industria del marketing, del media e della comunicazione. Ne parliamo con Carlo De Matteo, Co-Founder e Chief Operating Officer di MINT
Il PNRR rappresenta un forte investimento in aree diversificate del digitale, ma quali sono gli ambiti dove le idee e i concetti di intervento si sono concentrati?
Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) costituisce un sostanzioso pacchetto di investimenti e riforme che vale 191,5 miliardi di euro e prevede anche l’accelerazione verso una transizione ecologica e digitale, il miglioramento della formazione dei lavoratori, una maggiore equità di genere, territoriale e generazionale. Delle risorse totali del PNRR circa 14 miliardi sono dedicati alla digitalizzazione, innovazione, competitività del sistema produttivo.
Sono tanti, e chiunque si aspetterebbe che parlando di digitalizzazione e innovazione ma soprattutto di competitività il marketing e la comunicazione facessero la parte del leone..
Ma se andiamo a vedere bene di che cosa si tratta vediamo che ci si è focalizzati pressoché totalmente su progetti innovativi per le filiere di produzione del Made in Italy.
Il Credito d’imposta della Transizione 4.0, in particolare, è applicabile solo per gli investimenti in beni strumentali funzionali alla trasformazione tecnologica e digitale dei processi produttivi.
Quindi gli interventi sono rivolti solamente alle aziende che producono beni e non servizi, è questo che intende?
Esatto, i processi produttivi appartengono alle aziende industriali e non a quelle del terziario e contribuendo quest’ultime per il 70% del PIL, significa che il PNRR favorisce chi contribuisce solo per il 30% alla ricchezza del paese e per le rimanenti… nulla.
Ma fosse solo questo il punto, sarebbe una svista accettabile in funzione di una vera trasformazione e competitività del comparto beneficiario di cotanta sostanza. Vorrei però aggiungere qualche riflessione.
L’Italia era una grande potenza industriale dopo la seconda guerra mondiale, poi con l’avvento della globalizzazione, ciò che sopravvive da noi lo fa grazie alla qualità e all’eccellenza del prodotto.
Quindi il nodo non è tanto l’ammodernamento della filiera produttiva, quanto la capacità di esportare i propri prodotti anche all’estero, di diventare globali. E questa capacità è supportata quasi per intero dalla comunicazione e dalla pubblicità, del tutto ignorate dal PNRR. Invece di investire nella crescita del paese e nell’internazionalizzazione, il PNRR si è occupato di efficientamento dei processi produttivi. Bene, ma non sufficiente a far ripartire il paese.
Qual è la causa di questa dimenticanza e come poter porre rimedio? C’è ancora speranza per la nostra industria?
In un momento in cui gli stati più che mai sono tornati fortemente nei gangli dell’economia, essi sono interlocutori ancora più fondamentali per il settore privato. Quindi credo che la nostra industry debba fare uno sforzo ulteriore per dialogare con il governo e le istituzioni e far comprendere la rilevanza del nostro settore anche come produttore di PIL e per gli sviluppi che ci saranno.
Pensare al PNRR e prendere atto che non c’è niente per il nostro settore ci deve spingere a rompere questo paradigma che si è creato di scarso coinvolgimento. Bisogna cambiare modalità, da Milano bisogna scendere a Roma un po’ più spesso e sollecitare provvedimenti e interventi per la nostra industry. Le associazioni di categoria e di settore hanno ancora margine per lavorare a un rafforzamento del dialogo e poter giocare una nuova partita.