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E se l’AI diventasse un motore creativo a basso costo? Non perfetto, d’accordo, ma ‘good enough’

Disclaimer: il futuro descritto in questo articolo è assolutamente distopico. Le evoluzioni sono estremizzate, scegliendo in ogni possibile caso quelle più lontane dalla realtà esistente e dai probabili risultati. In altre parole: non succede, ma se succedesse...
AI creative 01

In un futuro prossimo, il panorama della comunicazione pubblicitaria sarà dominato da un’efficienza sterile e prevedibile, frutto della totale automazione tramite intelligenza artificiale? È quello che fa supporre una notizia che abbiamo pubblicato qualche giorno fa che vede, in prospettiva, le agenzie creative, oggi ancora motori di cultura e innovazione, quasi interamente soppiantate nel loro ruolo, ridotte a una minoranza che cerca di sopravvivere in un oceano di contenuti generati da algoritmi.

Anno 2030: uno scenario distopico

Proviamo a ipotizzare allora un scenario distopico, ambientato nel 2030 (oppure nel 2035 se siamo pessimisti sull’evoluzione dell’AI) partendo proprio da questo annuncio: l’AI generativa promette nel prossimo futuro di creare campagne complete partendo da semplici input come l’URL di un prodotto e i KPI aziendali.

Siamo dunque nell’anno 2030, e gli anni appena trascorsi hanno visto una rapida e inesorabile trasformazione, partendo da un segnale premonitore apparso nel 2025, un articolo che, riletto col senno di poi, suona come una profezia inascoltata. La reazione del settore pubblicitario fu all’epoca di sufficienza, interpretando la novità come un semplice aiuto per le piccole imprese, uno strumento incapace di cogliere le sfumature emotive e l’ironia che solo l’ingegno umano poteva produrre.

Questa fu una valutazione profondamente errata, basata sulla convinzione che la tecnologia avrebbe avuto un’evoluzione lineare e che la priorità dei clienti sarebbe rimasta l’eccellenza creativa. In realtà, l’annuncio di Meta non introduceva un semplice tool, ma una precisa dichiarazione strategica: l’obiettivo non era assistere le agenzie, ma scavalcarle, trasformando la creatività da servizio a valore aggiunto in una funzione software integrata nel processo di acquisto media. Le agenzie non riconobbero il cavallo di Troia, vedendo in esso solo un innocuo strumento di ottimizzazione.

I centri media sono i primi ad essere colpiti

Prima che la creatività stessa venisse messa in discussione, l’intelligenza artificiale aveva già conquistato il suo avamposto più logico: i centri media. La loro funzione, intrinsecamente algoritmica e basata sull’analisi di dati per la pianificazione e l’acquisto di spazi, rappresentava il terreno ideale per l’AI. Le piattaforme tecnologiche come Google e Meta offrirono sistemi di ‘Performance Marketing AI’ (PMAI) che non si limitavano a suggerire, ma eseguivano in autonomia l’allocazione dei budget con una precisione e una velocità irraggiungibili per un team umano.

I centri media tentarono di riciclarsi come supervisori strategici di queste AI, ma i clienti si resero presto conto che pagare una fee per un controllo umano che limitava l’efficienza della macchina era antieconomico. Entro il 2028, il modello era collassato: le aziende gestivano i budget direttamente sulle piattaforme PMAI. La caduta dei centri media fu una transizione silenziosa verso l’efficienza, ma creò un precedente devastante, dimostrando che un intero ramo del settore poteva essere sostituito da un software più performante e meno costoso. La creatività sarebbe stata la vittima successiva.

La guerra asimmetrica delle agenzie creative

Tra il 2028 e il 2030, le agenzie creative si trovarono a combattere una guerra asimmetrica contro le piattaforme di AI generativa, un avversario superiore per velocità, volume di produzione e costo. Mentre un’agenzia impiegava settimane per sviluppare una campagna, un sistema di AI integrata produceva centinaia di varianti in pochi minuti, trasformando il concetto di ‘campagna’ in un flusso creativo perpetuo e auto-ottimizzante. Inoltre, il costo dell’AI era nullo, offerto dalle piattaforme come servizio gratuito per assicurarsi gli investimenti media. Di fronte a questa convenienza, la discussione si spostò dalla qualità al ROI.

L’errore fatale della comunità creativa fu credere nell’insostituibilità dell’eccellenza, senza capire che la maggior parte della comunicazione commerciale richiede solo un livello ‘sufficientemente buono’ (good enough). Le AI del 2029 erano maestre in questo, producendo su scala industriale comunicazioni funzionali e ottimizzate. Le agenzie, per giustificare i loro costi, si trovarono a promettere idee straordinarie a clienti sempre meno disposti a pagare per un processo lento e soggettivo, finendo per diventare involontari centri di ricerca e sviluppo per affinare gli algoritmi dei loro stessi competitor.

L’implosione delle case di produzione video

Il colpo di grazia arrivò con la maturazione dei modelli di sintesi video, incarnati da software come VEO3. Questi non erano più semplici generatori text-to-video, ma erano ormai diventati motori di produzione audiovisiva olistici, capaci di creare spot completi, coerenti e fotorealistici, indistinguibili da una produzione reale di alto livello. La possibilità di generare filmati di qualità in poche ore, con infinite varianti a costo zero, rese obsoleta l’intera filiera della produzione video tradizionale. Le case di produzione implosero e un’intera generazione di talenti (registi, montatori, direttori della fotografia) si trovò senza lavoro.

Con la tecnologia per la produzione di contenuti ormai matura, le grandi piattaforme sferrarono l’attacco finale: offrire la creazione di campagne complete gratuitamente, a patto che l’intero budget media venisse speso sul loro ecosistema. Per i manager aziendali, la proposta fu irresistibile, eliminando costi, tempi e incertezze. Questa focalizzazione sul risparmio immediato, pur accolta con entusiasmo dagli investitori, oscurò le conseguenze a lungo termine: la perdita di un patrimonio di idee, la standardizzazione dei brand e la totale dipendenza tecnologica.

La ‘Sfida Infinita’ contro il Rumore Bianco

Ci troviamo oggi, nel 2035, in un equilibrio precario. Da un lato, un’industria della comunicazione di massa iper-efficiente, automatizzata, che produce un flusso costante di contenuti ottimizzati ma fondamentalmente omologati. Un rumore bianco pervasivo che garantisce performance di business a breve termine. Dall’altro, un piccolo, fiero arcipelago di creativi che combatte una sfida continua.

La loro battaglia non è più per il budget più grande o per il prossimo spot del Super Bowl. È una sfida contro l’entropia comunicativa, contro la tendenza del sistema a favorire la media prevedibile rispetto all’eccezione geniale. È una lotta per dimostrare, progetto dopo progetto, che un’idea veramente originale ha un valore che non può essere calcolato da un algoritmo di ROAS. È una sfida tra numeri sempre più piccoli: meno agenzie, meno clienti disposti a rischiare, meno opportunità per lasciare un segno.

Che cosa accadrà veramente

La domanda che ci poniamo, guardando al futuro, non è se l’IA diventerà ancora più brava. Lo diventerà. La vera domanda è se l’umanità, e le aziende che ne sono espressione, ricorderanno il valore di una storia sorprendente, di un’emozione autentica e di un pensiero che, sfidando la logica dei dati, riesce a cambiare il mondo, anche solo per trenta secondi.

Ma per rispondere a questa domanda non basta immaginare un futuro distopico, servirebbe un’indagine ucronica, ex post, che prendesse in considerazione le quasi infinite sliding door che indirizzeranno realmente l’evoluzione complessiva in un senso o nell’altro. Ma a quel punto sarà troppo tardi per fare qualcosa che non sia una mera speculazione su quello che sarebbe potuto essere e non è stato. A proposito di ‘sliding door’, una si è aperta qualche giorno fa: Netflix ha investito oltre un miliardo di dollari in studi di produzione fisici sul terreno di un’ex-base militare USA. Attendiamo la prossima…

di Massimo Bolchi