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‘Creativity and Law’ by Gianluca De Cristofaro: non dite a mia madre che faccio l’avvocato, lei mi crede un pubblicitario (strizzata d’occhio a Séguéla). Gli influencer. Troppi i fake like. Ai danni del consumatore, ma anche dei brand, perché campagne così alla lunga non porteranno a nulla. E si parla di legalità…

Da alcuni recenti sondaggi è emerso che oltre l’80% dei professionisti del marketing e della comunicazione lancerà, nel 2017, almeno una campagna che coinvolgerà degli influencer. E ciò nonostante l’aumento di influencers ‘improvvisati’, che acquistano fake follower per raggiungere i target voluti dalle agenzie di pr e che non portano conversioni di alcun tipo (da qui la nascita di diverse piattaforme di misurazione delle performance; di cui si è parlato qui, qui e qui).

Ora, chi lavora nel mondo del marketing e della comunicazione (o nel settore legale) è, normalmente, in grado di percepire che il post che ha davanti ai propri occhi fa parte di una campagna di influencer marketing. La domanda è se ciò valga anche per qualsiasi utente medio di internet (quello che, in legalese, viene definito il consumatore medio).

Il tema, lato legale, è quello della trasparenza della pubblicità e della riconoscibilità del messaggio pubblicitario o, in altre parole, quello della pubblicità occulta. Insomma, il pubblico, davanti a un post che fa parte di una influencer marketing campaign, deve essere in grado di capire che si trova davanti a un messaggio pubblicitario.

Se ciò non accade, ed il consumatore ritiene che l’autore del post parli di un determinato prodotto perché lo apprezza realmente e non perché ne abbia un vantaggio economico (denaro o prodotti in “omaggio poco cambia), allora ne risulta ingannato e la comunicazione è in contrasto con la normativa di settore.

È ciò che accadeva in passato con la pubblicità redazionale (o con il product placement).

Negli Usa, dove l’influencer marketing è già diffuso da tempo, la (piuttosto intransigente) Federal Trade Commission, dopo essere intervenuta per bloccare alcune campagne (noto il caso del post di Kim Kardashian), ha pubblicato, tra l’altro, delle linee guida.

Le guideline della FTC muovono da un principio base: l’influencer deve veicolare al pubblico il messaggio che il marchio sta pagando per quel post. E per farlo non indica un’unica strada.

Le guideline riportano due esempi di statement che si ritengono idonei a rendere la pubblicità palese:

  • Company XX gave me this product to try …
  • Some of the products I’m going to use in this video were sent to me by XX’s manufacturers

La logica che sta dietro questi esempi è chiara; se l’influencer fa disclosure del fatto che ha ricevuto il prodotto dal brand (e che, quindi, non lo ha acquistato autonomamente) è evidente che sta facendo pubblicità (nel caso in cui ne parli bene, ovviamente) o, quantomeno, che ci sia una relazione tra l’influencer e il brand.

Le guidelines suggeriscono anche l’inserimento degli hashtag #ad e #sponsored, che rappresentano il modo più efficace e conciso per dichiarare che l’influencer sta ricevendo un corrispettivo (oltre al prodotto) per la pubblicazione del post. La FTC sconsiglia di inserire tali hashtag (o indicazioni analoghe) in post successivi.

E in Italia ?

Non ci sono normative ad hoc. Tuttavia, la legge sulla pubblicità ingannevole afferma che la pubblicità deve essere riconoscibile come tale e, quindi, vietano la pubblicità occulta ovvero quei messaggi che non vengono intesi dal pubblico di riferimento (o meglio dal consumatore medio) come pubblicità, proprio come possono esserlo dei post di una campagna di influencer marketing.

L’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria (IAP) ha pubblicato una Digital Chart (della cui pubblicazione si era già data notizia su Youmark! qui) con l’intento di dare un quadro delle diverse tipologie di online advertising e indicare i requisiti necessari per renderle riconoscibili i messaggi pubblicitari come tali.

Nella Digital Chart viene precisato che alcuni accorgimenti utilizzati dagli influencer per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti pubblicati sui social media sono, ad esempio:

#(hashtag) più il brand in abbinamento con:

  • #(hashtag) più il nome della campagna pubblicitaria in corso o accompagnato dal claim principale della campagna pubblicitaria, sempre che tale campagna o il suo claim abbiano acquisito notorietà
  • il link al sito internet del brand (ad esempio, un link che rimandi direttamente alla pagina dello shop-online)
  • il link al sito internet del brand unitamente al @tag alla pagina proprietaria del brand sui social media (ad es. Instagram e Facebook)

Va precisato che quanto sopra è solo un esempio presente nella Digital Chart. Ciò vuol dire che quanto sopra potrebbe non bastare a rendere riconoscibile il post come pubblicità e quindi a renderlo conforme alla normativa italiana.

E in effetti non è detto che per tutti gli utenti l’indicazione del brand (preceduto da un hashtag) o un link al sito dell’inserzionista sia sufficiente per rendere palese la natura pubblicitaria. Qualora un post di un influencer promuova un prodotto rivolto a un pubblico over 50 (che pure naviga su Internet), ritengo difficile sostenere che le cautele di cui sopra siano sufficienti. Ci si dovrebbe forse muovere verso un più tradizionale “#sponsored”.

È, quindi, sempre necessario domandarsi se c’è la possibilità per il pubblico di riferimento (a cui si rivolge il messaggio) di scambiare il post sponsorizzato per organic post.

Al momento, non mi risultano decisioni italiane sul tema; né contro l’inserzionista né contro l’influencer. Ma ritengo che non tarderanno ad arrivare, soprattutto se, come pare, il fenomeno dell’influencer marketing continuerà a crescere.

Chi è Gianluca De Cristofaro 

socio di LCA Studio Legale, è avvocato specializzato in diritto della proprietà intellettuale e delle nuove tecnologie, nonché dottore di ricerca in diritto industriale. Da oltre 15 anni si occupa di marchi e di pubblicità ingannevole e comparativa supportando big spender pubblicitari ed agenzie di comunicazione nella verifica preventiva delle campagne pubblicitarie e nella loro difesa in giudizio.

Per contatti: gianluca.decristofaro@lcalex.it.