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Comunicazione, Distribuzione, Marca. L’Italia che riparte nel primo appuntamento 016 del Purple Program, ciclo di incontri organizzato da Mindshare. Binaghi: se i big spender in Italia tornassero ad investire in modo strategico potremmo assestarci su livelli di mercato europeo

Comunicazione. Distribuzione. Marca. L’Italia che riparte. Questo il primo appuntamento dell’edizione 2016 del Purple Program, ciclo di incontri organizzato da Mindshare e dedicato all’approfondimento dei temi di attualità che riguardano il mondo della comunicazione.

In questa occasione Mindshare è affiancata da Long Term Partners, IRI e Millward Brown.

L’evento, tenutosi oggi a Milano, si è articolato in tre interventi rispettivamente di Roberto Binaghi (Chairman&CeoMindshare Italia, nella foto), Livio Martucci (Dir. Global Analytics&Consulting IRI), Federico Capeci (CeoItaly&CDO Kantar Consumer Insight).

I lavori si sono poi conclusi con un panel moderato da Marco Costaguta, Presidente di Long Term Partners e che ha visto protagonisti a Milano Cristina Scocchia (AD L’Oreal), Francesco Pugliese (AD Conad), Massimo Costa (Country Manager WPP), mentre a Roma presenzieranno Angelo Trocchia (Ceo Unilever), Andrea Falessi (Head of Communication Enel), Giovanna Maggioni (General Manager UPA).

La presentazione – articolata seguendo i tre argomenti Comunicazione, Distribuzione e Marca – si è aperta con l’intervento di Mindshare.

Binaghi ha dunque fotografato il trend degli investimenti pubblicitari del nostro mercato dal 2007 a oggi ed evidenziando come in questo intervallo di tempo ci sia stata una contrazione di circa il 29%, pari a una perdita di 3.000 milioni di Euro in valore assoluto.

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Per meglio comprendere l’entità di questo fenomeno è stata fatta una simulazione che, partendo dalla dimensione degli investimenti pubblicitari delle maggiori aziende investitrici, stimasse il loro impatto sul nostro mercato. Con questa prospettiva il taglio di 3.000 milioni di euro, rappresenterebbe la perdita del budget pubblicitario dell’Olanda.

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Un dato che colpisce, tanto più se raffrontato all’andamento degli altri grandi paesi europei come UK, Germania e Francia che invece hanno saputo reagire alla crisi più velocemente di noi, assestandosi su segni negativi, ma non allarmanti, come nel caso della Germania. Virtuosa la risposta di UK che, sebbene avesse subito un calo maggiore rispetto agli altri, ha saputo rispondere in modo netto, mettendo a segno un 2015 con crescita a doppia cifra.

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L’analisi si sofferma quindi sulla comprensione delle cause del malessere italiano, attraverso la valutazione di variabili tra cui l’andamento dei principali settori merceologici, messi a confronto con le realtà dei principali mercati europei, che confermano una crisi profonda peculiare del nostro mercato. Un dato per tutti: il calo degli investimenti del comparto FMCG pari al 26%, associato alle perdite dell’Automotive e Telco, sono responsabili della metà della riduzione del mercato.

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L’analisi di Mindshare si è quindi focalizzata sulle aziende italiane, partendo dalla suddivisione in tre parti uguali del mercato degli investimenti pubblicitari 2007 ed analizzandone lo scostamento. La variabile fissa di tale analisi è il range di spesa, in modo da consentire un confronto omogeneo tra gli anni.

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Il risultato mostra come le aziende big spender del nostro mercato abbiano accusato cali superiori alla media, sia in termini di numerosità che di budget, sintomo che la crisi ha origine soprattutto nei grandi investitori. Le aziende appartenenti alla fascia centrale del mercato, al contrario, hanno saputo contenere il trend negativo, mostrando risultati di fatto positivi. Gli investitori al di sotto del milione di euro e che rappresentano numericamente la maggioranza, confermano lo scenario generale, contraendo sia in termini numerici che di investimento.

Mindshare ha voluto allargare il perimetro dell’indagine anche ad altri aspetti strutturali dello scenario economico che contribuiscono a motivare il drastico calo degli investimenti pubblicitari.

L’analisi dei consumi italiani negli anni analizzati, segnala un calo del 5.6%, a fronte di una deflazione del costo degli spazi pubblicitari che si assesta ad un -12.6%. In merito alla deflazione Mindshare precisa che questo dato è il risultato di due componenti: l’effettivo calo dei prezzi di listino delle concessionarie offline, e l’ingresso sempre più rilevante del Web che non subisce l’effetto deflattivo, contribuendo in termini positivi.

A fronte dello scenario descritto, Binaghi mostra quale sarebbe stata la dimensione del mercato pubblicitario italiano se il calo degli investimenti avesse seguito il corso dei due indicatori analizzati: deflazione e consumi.

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Il downsizing 15vs07 del -29% si sarebbe contenuto al -18%, con una perdita a valore assoluto di 1.924 mio di euro contro gli attuali 3.000 mio, restituendo un mercato da 8,5 mio di euro rispetto agli attuali 7,4 mio.

L’analisi mostra inoltre il differenziale in termini percentuali della quota che le aziende non hanno investito, assecondando logiche di taglio non sempre giustificate e messe in atto assimilando il budget media a una riserva alla quale attingere per altre attività.

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L’intervento di Mindshare si è concluso con una visione del presente e dell’immediato futuro, mostrando i primi dati del 2016 che confermano l’andamento positivo grazie a una crescita costante.

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Coerentemente all’andamento di indicatori quali la deflazione e i consumi, l’attuale scenario di mercato dovrebbe attestarsi ad un valore tot 2016 di circa 7.621 mio di euro.

Nel caso in cui le aziende ritornassero a considerare il media come una leva strategica del loro marketing mix, e non una fonte dalla quale attingere, potremmo ipotizzare una chiusura a circa 8.500 milioni di euro.

Binaghi: “Se le grandi aziende investitrici in Italia tornassero ad investire in modo strategico potremmo assestarci su livelli di mercato europeo, in particolare vicino la Francia, con una spesa pro capita non troppo dissimile. E’ davvero un peccato che, contrariamente a quanto avviene in altri Paesi, le grandi aziende in Italia non supportino adeguatamente le loro marche. Il pericolo di essere superate da competitors più lungimiranti, che appartengono alla fascia media del mercato, è tutt’altro che remoto”.

Martucci ha aperto il suo intervento evidenziando alcuni fenomeni chiave che caratterizzano l’andamento dell’Industria di marca all’interno del canale moderno.

In particolare Martucci ha illustrato come nel biennio 2013-2014 gli acquisti nel Largo Consumo Confezionato siano calati di 2 punti % vs il 2012. E nel solo 2014 la spesa delle famiglie è scesa dello 0,7%, in altre parole quasi mezzo miliardo di spesa in meno.

Fortunatamente nel 2015 il comparto inverte la rotta, tuttavia la ripresa appare molto fragile e incerta. Nel corso dell’ultimo anno, infatti, gli acquisti sono ritornati a crescere, anche se il trend congiunturale, ovvero la tendenza rispetto al trimestre precedente, esprime tutta l’incertezza e la debolezza del rilancio (un differenziale di -1 punto %) che si conferma nel primo trimestre 2016.

L’incertezza non è spiegata solo dai fondamentali dell’economia, come lavoro e produzione, ma anche da elementi che caratterizzano il periodo recente come crisi delle banche, sfiducia nelle istituzioni, o anche eventi legati alla sicurezza delle persone (i recenti attentati in Francia ne sono un esempio).

Le previsioni per la rimanente parte del 2016 rimangono comunque moderatamente positive.

Dopo una crescita nel 2015 del 2,2%, sostenuta anche da un’estate particolarmente calda che ha aiutato le categorie stagionali (come le bevande), le attese di IRI sono di una crescita più contenuta degli acquisti – pari allo 0,5% – su base annua.

Questa positività è validata dal quadro economico generale dell’anno in corso a detta di tutte le istituzioni (+1,1 % OCSE, UE, Governo) e ovviamente ipotizza che non vi siano forti discontinuità economiche e geo-politiche, in altre parole un cauto ottimismo.

La crescita sembra destinata a essere comunque modesta e la marca dovrà avere un ruolo fondamentale nel rilancio dei consumi per garantirne la continuità.

Un primo importante spunto per il rilancio dell’Industria di Marca emerge dal fatto che il consumatore è alla ricerca di valore.

In particolare il consumatore, a fronte di prezzi in fase deflattiva, manifesta la tendenza ad immettere più valore nel proprio carrello della spesa. Ha, infatti, ricomposto l’8% del suo carrello sostituendo prodotti a prezzi bassi con prodotti a più alto valore, come le marche, anche se spesso non si tratta proprio delle marche leader (ovvero dei brand dei principali 25 produttori che operano nel Largo Consumo Confezionato).

Il consumatore di oggi tende anche a frequentare formati distributivi che offrono “più valore”, a cominciare dai Supermercati o dai punti vendita specializzati (Drugstore).

Tuttavia l’acquirente non ricompone a caso il carrello ma effettua delle scelte ben precise, privilegiando categorie dove ritiene opportuno migliorare i suoi standard di consumo.

La selettività è quindi un fattore primario che guida i comportamenti di acquisto che sono più consapevoli e basati su informazioni: non a caso negli ultimi 10 anni il tempo trascorso dagli shopper davanti allo scaffale dei punti vendita per l’acquisto dei prodotti è cresciuto del 30%. Gli acquirenti confrontano di più marche, prezzi ma anche informazioni dei prodotti. In questo contesto la capacità della filiera, e della Marca in particolare, di produrre un’offerta distintiva è cruciale per vincere sul mercato.

Tuttavia ad oggi le analisi di IRI evidenziano che i principali produttori di Marca non stanno agendo secondo strategie vincenti ma si stanno focalizzando maggiormente sull’utilizzo della leva promozionale per sostenere le vendite dei propri prodotti. Ma gli ingenti investimenti in attività promozionali non stanno premiando i leader di Marca, che soffrono dal punto di vista del fatturato.

Il trading up (ricerca di maggior valore) attuato dal consumatore è dovuto soprattutto allo spostamento di atti d’acquisto dai Leader di Marca verso gli Altri Produttori e dalla migrazione verso canali con un’offerta a prezzo più alto.

In sintesi ne esce un quadro che vede un indebolimento della fedeltà alle grandi marche.

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Emerge dunque la necessità di riesaminare l’allocazione degli investimenti di marketing per riconfermare il valore ed il ruolo della Marca all’interno del Largo Consumo.

Il consumatore in questo momento cerca maggior valore mettendo nel carrello della spesa prodotti di più alto valore, aumentando il prezzo medio: è questa l’opportunità di oggi.

In questo contesto politiche che spingono su offerte volte ad aumentare quantità acquistate non incontrano il desiderio degli acquirenti.

Per le grande marche, che ne hanno la potenzialità, è importante seguire questo trend di valore; le marche devono costruire i proprio ciclo di crescita.

L’invito è di ripensare il ruolo della Marca lungo tre assi:

recuperando la differenziazione della marca, diluitasi nel caleidoscopio di promozioni, e allo stesso  tempo reiventando il ruolo del prezzo

rRinnovando l’offerta verso segmenti più premium

Utilizzando tutti gli strumenti di insight per una corretta riallocazione delle risorse Adv promo e di assortimento.

“Il rilancio della domanda deve essere perseguito attraverso una lettura sempre più attenta e mirata dei trend dei mercati e dell’innovazione seguendo quelle che sono le richieste di un nuovo consumatore, attento, informato ed orientato a mettere valore nel proprio carrello della spesa”, spiega Martucci.

Capeci ha condiviso alcuni dati estratti dai database di Millward Brown. Nel suo intervento, ha delineato lo stato di salute delle marche, sottolineando il ruolo delle attività di comunicazione e la necessità di identificare insight rilevanti per il target di riferimento al fine di poter sviluppare iniziative in grado di impattare efficacemente sulla relazione marca-consumatore.

Il valore di una marca forte è confermato dall’andamento dei titoli azionari di quelle aziende che negli anni hanno saputo investire sulla costruzione di un brand in grado di intercettare in modo rilevante e differente i bisogni, le aspettative e i desideri del proprio pubblico di riferimento. Il valore economico dei Top Brands è cresciuto in modo più che significativo nonostante le perturbazioni che hanno caratterizzato questa ultima decade.

Attraverso la comunicazione le aziende possono contribuire a formare le associazioni di marca che risiedono nella mente delle persone. Associazioni che determinano la propensione a prendere in considerazione la marca, a giustificarne un prezzo e a confermare o cambiare un comportamento di acquisto nel tempo.

“Lavorare sulla marca significa costruire esperienze cui il consumatore possa riconoscere un valore. Che sia un’esperienza di utilizzo del prodotto/servizio o un’esperienza di interazione attraverso la comunicazione. E questo è un periodo decisivo per chi si trova ad affrontare la sfida di dover creare valore di marca, perché l’attenzione che il consumatore è disposto ad offrire alle marche è sempre meno. Accedere allo spazio mentale del nostro universo di riferimento è una sfida sempre più difficile ed importante, come dimostrano i dati Millward Brown. Investire nella relazione con il consumatore e quindi nelle attività di comunicazione è fondamentale per creare valore di marca e sostenere la predisposizione nei confronti del brand. In questo processo è però cruciale identificare gli insights che più efficacemente possono creare una vera connessione con le persone cui ci vogliamo rivolgere. Basare una strategia di comunicazione ed engagment su stereotipi, generalizzazioni o ansie da performance di breve periodo non è certo un buon inizio per creare esperienze di valore e ottenere in cambio il riconoscimento di un valore di marca. Non si tratta di sola teoria, ma di un approccio che ha importanti ricadute concrete sul business, ad esempio, l’analisi dei database Millward Brown evidenzia come l’utilizzo di strumenti di ricerca sin dalle prime fasi dello sviluppo di una idea creativa, permette di massimizzare le performance della campagna aumentandone le capacità di impatto del 20%, e generando di conseguenza una maggiore efficienza dell’investimento”, conclude Capeci.

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