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Tutti avrete riflettuto sulla recente ‘brutta avventura cinese’ di D&G. Abbiamo chiesto ad Alessandro Paciello, Aida Partners, un’opinione. Perché può succedere a un brand così, con investimenti così e per mercati così?

Alessandro Paciello

Alessandro Paciello, Presidente AIDA PARTNERS.

“Non mi occupo di pubblicità e ho già sentito troppi commenti ‘pro e contro’ la campagna di Dolce & Gabbana relativa al progetto cinese per aggiungere anche il mio. Mi sento però di poter dare un parere professionale, riguardo l’improvvisazione con la quale si affrontano, ancora oggi, investimenti ingenti in progetti che, proprio perché sostenuti da un ammontare rilevante di denaro e di sforzi, dovrebbero sempre prevedere, prima ancora di andare ‘on air’, un adeguato impianto di ‘crisis management’ per poter reagire, con cognizione di causa, a eventuali attacchi mediatici e di parte dell’opinione pubblica”.

Ma quindi i progetti dovrebbero già nascere a monte pensando a precisi impianti per gestire la eventuale crisi?

I clienti di Aida Partners sono abituati a vedersi segnalare dai nostri professionisti l’esigenza della costruzione di impianti di crisi, a fronte di qualsiasi progetto di comunicazione, anche se non sempre, purtroppo, decidono di investirci le risorse necessarie. Ed è proprio in questo che vedo ancora un’arretratezza, tutta italiana, da parte di imprenditori e manager.

Infatti, se è sempre stato vero che ogni volta che ci si espone in comunicazione si dovrebbero costruire gli opportuni strumenti di risposta ad attacchi mediatici, oggi, con l’avvento e, in un certo senso, il dominio dei social, questo è, o dovrebbe essere, ancora più vero”.

Esistono regole di comportamento imprescindibili, insomma quale il must?

“Se trent’anni fa, quando cominciai a occuparmi di ‘comunicazione in caso di crisi’ gli esperti anglosassoni già menzionavano la ‘golden hour’ come il tempo entro cui, al massimo, si doveva reagire a un’offensiva mediatica, oggi, con gli strumenti digital, devono passare al massimo poche decine di minuti. Per reagire in tempi così brevi si deve essere già preparati su tutti gli scenari possibili che potrebbero derivare dalle nostre azioni di comunicazione. Non farlo, soprattutto se si stanno investendo molte risorse per rendere ancora più potente il nostro impianto di comunicazione, è da incoscienti. Bastano, in fondo, poche risorse in più per completare la progettualità di un’azione di comunicazione ben strutturata e assicurarsi così di minimizzare gli eventuali effetti negativi di un’azione contraria. Non so per certo che nel progetto di D&G non ci fosse un serio progetto di ‘crisis’, ma se guardo alla reazione scomposta e piena di contraddizioni dei due stilisti, devo concluderne che se anche ci fosse stato evidentemente non è stato attuato”.

La moda è più arretrata di altri comparti in tal senso?

“Se il mondo aziendale italiano, per non parlare di quello politico, è ancora poco avvezzo, irresponsabilmente, a un approccio professionale al crisis, quello della moda lo è particolarmente. Se guardo a quel settore, così strategico per la nostra economia, non ravviso grande professionalità della comunicazione. Lì tutto viene finalizzato all’approccio creativo, di certo fondamentale, ma proprio perché l’imperativo è colpire, sorprendere, ‘essere memorabili’, tanto più si deve essere preparati a reagire con grande professionalità alle reazioni successive alle provocazioni lanciate. Altrimenti, c’è non solo scarsa professionalità, ma addirittura incoscienza perché si mettono a rischio milioni di euro, posti di lavoro, anni di attività e, come nel caso di D&G, persino l’immagine di tutto il nostro comparto moda, che potrebbe subirne gli effetti negativi in quella che è oggi uno dei mercati più importanti del mondo, se non il più importante”.

Ma alla fine, il fatidico video incriminato, non poteva semplicemente essere etichettato come ironia creativa?

“Credo che una cosa sia l’ironia, altra strategia e professionalità. Fare il comunicatore richiede conoscenze e competenze antropologiche, sociologiche, economiche, storiche, linguistiche. Non si può ridurre tutto alla mera creatività. Questa, quando è fine a sè stessa, può provocare danni seri. Prima viene una seria strategia, figlia di conoscenze multidisciplinari e diversificate, poi la creatività. Quasi sempre, invece, la seconda fa rinunciare alla prima. Spesso a causa della mancanza di adeguate competenze, tanto nelle agenzie che nei management aziendali. E così l’azione tattica surclassa quella strategica. Fare il ‘comunicatore’, seriamente, è un mestiere molto difficile”.