di Maurizio Ermisino
YouMark ne ha già parlato, intervistando Tony Kaye e Giulia Negretto, ma vale la pena di tornare a farlo dopo aver visto il film. Anche perché Kaye nella sua poliedricità è un super regista pubblicitario e dunque questa premiere rende onore a tutta la industry e soprattutto ci parla di marketing e di bisogni fittizi, ma soprattutto dell’eternità del mito del sogno che si nutre di emozione.
Il potere del marketing
Il nuovo The Trainer, con la collaborazione di BLACKBALL, che è stato presentato ieri alla Festa del Cinema di Roma, non lascia indifferenti. E’ la storia di Jack Flex (Vito Schnabel, figlio dell’artista Julian Schnabel, anche sceneggiatore), trainer di fitness crede di aver inventato un oggetto che cambierà il mondo degli allenamenti. Si chiama Heavy Hat, ed è un cappello pesantissimo. A guardarlo sembra un antico elmo, forse ispirato ai guerrieri romani, o a quelli di Troy, il film con Brad Pitt che il nostro eroe ama tanto. A cosa serve? Fa bene ai muscoli del collo. Ma allenandosi con il medesimo in testa, rinforza anche gli addominali e tutto il corpo. È un oggetto di cui abbiamo bisogno? Ma poi, quali sono davvero gli oggetti di cui abbiamo bisogno oggi?
Kaye artista poliedrico
Sono queste le domande che si fa The Trainer, uno dei film più assurdi che vedrete quest’anno. Lo amerete, lo odierete, vi darà fastidio o lo troverete geniale. Di sicuro, non vi lascerà indifferenti. D’altra parte Tony Kaye è così. Tra i più grandi registi pubblicitari e di videoclip americani, quando è arrivato al cinema, con American History X, ci ha dato un enorme pugno nello stomaco confezionato in una forma elegantissima, un bianco e nero luminoso e contrastato. The Trainer è esattamente l’opposto di American History X. Le prime immagini colpiscono quasi a livello subliminale. Colori accesi e un montaggio frenetico, al limite dello schizofrenico per bombardarci di informazioni che all’inizio tendiamo a respingere, ma che man mano rielaboreremo per trovare, solo una volta che il mosaico sarà completo, il senso compiuto. A proposito di colori, questi sono accentuati dal lavoro in postproduzione, che non è il solito intervento in post, quello in cui le aggiunte non si devono vedere: qui sono evidenti, sottolineate, realizzate apposta per dare un apporto irreale al film, per renderlo ancora più visionario.
Lo stile di regia da televendita
Le immagini del film sembrano volgari. E, all’inizio, The Trainer sembra girato davvero male. Ma è fatto apposta. Perché ci racconta la storia di un ragazzo che vuole fare marketing, vuole vendere qualcosa, e si muove nel mondo delle tv commerciali, quelle delle televendite. “Volevo che tutto il film avesse le sembianze di una trasmissione di televendita” ha spiegato ieri a Roma. Ma è Jack si muove anche nel mondo dei social media, delle riprese personali che ormai tutti noi, registi di noi stessi, facciamo con il nostro smartphone. Alcune inquadrature sono traballanti, precarie, storte. La mdp è spesso addosso ai volti, proprio come quando ci inquadriamo da soli.
La potenza dell’emozione
Alcune tv, i social media, YouTube hanno cambiato negli ultimi 20 anni il gusto e il senso dell’immagine. Le nuove generazioni non fanno attenzione alla qualità di quello che vedono, ma al contenuto, a quello che li emoziona. E la chiave di questa storia è proprio l’emozione. La storia svolta infatti quando Jack, in diretta, smette di parlare del prodotto e comincia a parlare di se stesso, del suo rapporto col padre, e con la madre. Quando per la prima volta è sincero. Ma il punto non è tanto che sia sincero. È che arrivi alla gente. Che faccia scaturire un’emozione. E questo ci dice che oggi, un’era in cui abbiamo tutto e non ci sono cose di cui abbiamo realmente bisogno, riesce a vendere chi riesce a evocare emozione, a svegliarci dal torpore. A comunicare in un modo in cui nessuno aveva mai fatto prima. È per questo, e non solo perché Tony Kaye è un grande della pubblicità e dell’immagine in generale, che tutti i marketer e gli advertiser dovrebbero vedere questo film.
Al diavolo le regole sui camei
The Trainer è spassoso per come si diverte a stupire a ogni inquadratura introducendo ogni volta un ospite più grande: Kaye si prende gioco anche delle regole che vogliono il cameo inserito ad arte in un momento chiave del film, e infarcisce il film di camei uno dopo l’altro. The Trainer è un film di star dove il protagonista è l’unico che non lo è. Sfilano: Steven Van Zandt (alias Little Steven, chitarrista della E Street Band), Bella Thorne, Julia Foxl. Ci sono Gina Gershon e Stephen Dorff, titolari dell’azienda a cui propone il casco. E poi, sempre più in alto, Paris Hilton, Gavin Rossdale dei Bush, John McEnroe, Lenny Kravitz e Bono. “È stato un effetto a valanga” ha spiegato Vito Schnabel. “Julia ha detto sì, Bella ha detto sì, abbiamo avuto fortuna. La gente è arrivata sul set e voleva partecipare. Tony era una grande attrazione. Ho fatto lo stalker, come il mio personaggio”. “Solo cinque settimane fa ho avuto il sì di Bono” ci svela Tony Kaye. “Ero in un ristorante, l’ho visto, sono corso al suo tavolo e ho tirato fuori il mio telefono. E dopo 40 secondi era lì che diceva: Jack, I want that hat”.
Per Kaye è il racconto che decide lo stile
The Trainer è la dimostrazione che Tony Kaye è in grado di fare davvero qualsiasi cosa. Può fare quello che vuole: non è un regista che si fossilizza su una poetica o uno stile, ma sceglie lo stile migliore per il racconto che vuole fare. L’importante è partire sempre dai personaggi. “Io amo i personaggi che hanno qualcosa da dire” ha spiegato ieri a Roma. “Mi piacciono le sfide che gli umani devono affrontare per far uscire le proprie idee. Per me Jack è un supereroe. Non ho scritto il film, ma è il più personale che abbia fatto, the Heavy Hat è per me il montaggio di American History X”. Tony Kaye è il degno erede di una generazione di registi che, dagli anni Ottanta in poi, dalla pubblicità sono arrivati al cinema per cambiarlo: Ridley Scott, Tony Scott, Adrian Lyne e David Fincher. E infine Tony Kaye.