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Startup Italia Open Summit: nei primi 6 mesi del 2024 in Italia cresce il numero dei finanziamenti in startup innovative (+3% rispetto a un anno fa) ma cala l’ammontare degli investimenti complessivi (-47%). Serve un ecosistema, concreto

di Maurizio Ermisino

Creatività. Concretezza. Spirito imprenditoriale. Industria. Policy. Ecosistema. Siamo stati al SIOS, lo Startup Italia Open Summit 2024, che si è tenuto a Roma, al Gazometro a Ostiense, ieri, giovedì 20 giugno, e abbiamo provato a selezionare una serie di keywords, o se volete di possibili hashtag, tra i vari speech che abbiamo ascoltato. È su questi concetti che si gioca il futuro delle nostre startup. Accanto alla creatività serve la concretezza: serve lo spirito imprenditoriale e serve parlare di industria perché le startup di oggi non rimangano fini a se stesse, belle e incompiute, “unicorni”, come sono state definite. Ma diventino impresa, industria, le grandi aziende di domani. Per questo serve una politica che le sostenga, serve chiarezza: serve un ecosistema – ecco la parola più bella – ma che funzioni davvero e che sia forte.

I dati sono controversi e un po’ preoccupano.

Nei primi sei mesi del 2024 in Italia è cresciuto il numero di operazioni di finanziamento in startup (87, rispetto alle 84 realizzate dodici mesi fa, +3,5%) ma cala vistosamente il totale degli investimenti per un valore di 254,5 milioni di euro. Il dato che preoccupa, ma non sorprende, è quel -47% rispetto al primo semestre 2023. Sono stati 8 i round di finanziamento superiori ai 10 milioni di euro. Il 41,3% ha riguardato operazioni da 1 a 5 milioni di euro, il 33,3% sono stati dedicati invece alla fase seed (tra 500mila e 1 milione di euro), mentre il pre-seed ha impattato per il 14,9% circa. Tra le 87 operazioni del 2024 il 7,8% circa dei round sono stati destinati a startup che operano nel comparto del biotech, insieme alle soluzioni IT rivolte a un mercato B2B. Il 6,7% riguarda investimenti nel mondo dei software, la maggior parte dei quali potenziati dagli algoritmi di intelligenza artificiale. È ancora la Lombardia a conquistare circa la metà degli investimenti (il 48,27%), ma il Lazio è al secondo posto a livello nazionale con il 14,9%.

I dati non sono una sorpresa.

E bisogna abituarsi a un periodo di incertezza. Il mondo delle startup, in fondo, fa parte del nostro Paese e non è immune dalle incertezze di questo periodo, come ci invita a riflettere Alessandro Sordi, CEO e Founder di Nana Bianca. La sua ricetta è molto semplice. “Fare delle cose che funzionano” suggerisce. “Se funzionano e fatturano soldi, se fanno margine, i soldi ci sono”.

La chiave è l’ecosistema.

Quella parola magica, che ci piace tanto, deve ora essere messa in pratica. Proviamo a guardare all’ecosistema italiano come a un’azienda, lo suggerisce Lucia Chierchia, Managing Partner & Chief of Open Innovation Ecosystems di Gellify.” In una grande azienda la vera sfida è creare le condizioni per un’innovazione sistematica” riflette. “Abbiamo avuto degli unicorni ma dobbiamo essere onesti, è dovuto alle singole persone. Dobbiamo lavorare sulle condizioni per rendere l’ecosistema innovativo”. Per questo serve puntare sulle persone e le competenze, su processi strutturati e chiari per i finanziamenti, ed evitare la confusione sui ruoli, come accade oggi tra incubatori, acceleratori, e così via.

Dobbiamo trovare il modello italiano

È una frase che sentiamo dire spesso, troppo spesso, e che rischia di essere fuorviante, come suggerisce Gianmarco Carnovale, Presidente Roma Startup Ecosystem Building. Ma perché un modello italiano? Il nostro Paese deve imparare a copiare, a studiare le best practice. “Si dice: in America è diverso” rifletta Cannovale. “È diverso se continuiamo a dire che è diverso. È invece qualcosa che è codificato in tutto il mondo. Il nostro è un Paese che deve entrare in rete, in collegamento con i sistemi di tutto il mondo”. “Quello che ci vuole è una policy di altissimo livello” interviene Luigi Capello, CEO di Zest. “Bisogna cambiare le regole del gioco, spiegare cosa sono le startup, che sono diverse dalle Pmi”.

Che cosa è oggi il Made In Italy?

Una delle tendenze in atto sono gli investimenti nelle startup tech, le più vicine alle eccellenze del Made in Italy, cioè scienziati e medici, come ci fa notare Giorgio Ciron, Direttore di InnovUp. Sulla questione del Made In Italy ha riflettuto Emilia Garito, Founder e Chairman di Deep Ocean Capital SGR, andando a cercare dei dati. Se parliamo di eccellenze italiane pensiamo a brand del design, del fashion, del food, dell’artigianato. I numeri però ci dicono che oltre il 67% dell’export arriva dai settori industriali: meccanica, meccatronica, robotica, elettronica. E poi chimica, metalli, gomme e plastica, industria estrattiva. Perché allora non raccontiamo tutto questo? Il settore del food, che crediamo sia al centro delle nostre esportazioni, è intorno al 10%, per la precisione il 9,8%. Sappiamo fare tante cose e non le facciamo vedere. I dati ci dicono anche che nei settori dell’Intelligenza artificiale, nel Quantum Computing e nella fotonica siamo ai primissimi posti in Europa per studi pubblicati, e molto in alto anche pe i progetti realizzati. Significa che abbiamo un comparto industriale forte e grandi competenze scientifiche.

Riflette Emilia Garito: “dobbiamo trasformare la ricerca in prodotti del futuro, cioè nell’industria. Costruire le industrie del futuro. Investire in ricerca e valorizzazione della ricerca per trasformare le eccellenze scientifiche di oggi in realtà industriali di domani”.

Le nostre grandi aziende sono le stesse da una trentina d’anni.

E la loro età media è tra i 70 e i 100 anni. Ce lo fa notare Agostino Scornajenchi, Amministratore Delegato e Direttore Generale di CDP Venture Capital SGR. Dall’alta parte dell’oceano aziende più giovani, non giovanissime, come Amazon hanno una trentina d’anni. Perché il nostro listino non si è modificato negli ultimi 30 anni e quello americano sì? In America hanno avuto una infrastruttura di supporto alle imprese che è nata già negli anni Cinquanta” spiega. “Possiamo fare decisamente meglio, allora”. E torniamo a una delle parole chiave: industria. Serve sviluppare l’impresa di oggi perché diventi l’industria di domani. “I principali artefici dei cambiamenti dei venture capital siamo noi” spiega Scornajenchi. “Non ci dobbiamo lamentare se non ci capiscono se noi non ci spieghiamo bene. Dobbiamo imitare chi ha fatto meglio di noi. Agli investitori va spiegato cosa fare. Quali sono i settori che riteniamo strategici e quali hanno un livello di maturità”. E chiudiamo con l’altra parola chiave. “Ecosistema è una bellissima parola” dice Emilia Garito. “la parola c’è, ma gli ecosistemi devono essere concreti”.