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Servizi SVOD e pay tv in Italia: guida Prime Video (30%) seguita da Netflix (21%), che ben distanzia Sky (14% con NOW). DAZN, (9%). Disney+ (8%). Tutti gli altri sotto. La metà degli italiani guarda la tv in chiaro. Dati che sorprendono, non è così che la raccontano. Ma ora che le piattaforme raccolgono pubblicità, servono certezze

I DATI ERGO RESEARCH
I DATI ERGO RESEARCH
di Maurizio Ermisino

I servizi di streaming sono ormai i nostri compagni quotidiani, quelli che ci allietano con film, serie (e ora anche calcio e comicità), e sono sulla bocca di tutti. Ma quali sono le quote di mercato dei diversi player dei servizi SVOD e delle pay TV in Italia? È difficile saperlo con chiarezza: per le piattaforme non esiste l’Auditel né qualcosa di simile e quindi scarseggiano i dati ufficiali su sottoscrizioni, abbonamenti e consumi, o sono quantomeno parziali e frammentati. Arriva ora però un interessante ricerca a campione di Ergo Research sul market share dei servizi SVOD e pay tv in Italia, con delle percentuali calcolate sul “monte diritti” derivanti dal dichiarato di famiglie “in grado di accedere alle offerte”. La ricerca ci dice che il servizio leader del settore è Prime Video, con il 30% della fetta di mercato, seguito dal brand capostipite, Netflix, con il 21%. Segue Sky, player che fa capo al mondo delle pay tv, il vecchio modo di accedere ai contenuti, e che si è lanciato anche nel mercato dello streaming con la Now: Sky è all’11% e Now al 3%: aggregando i due dati, visto che la realtà e la stessa e gran parte dell’offerta anche, possiamo attestare Sky al 14%.    Sono dati che in parte sorprendono chi, vivendo in una bolla fatta tutta di addetti ai lavori o seguendo la comunicazione di brand e di prodotto delle varie realtà, ha una percezione diversa del successo di un servizio e anche dell’effettivo accesso degli italiani a questi servizi, come vedremo dopo.

Prime Video: l’abbonamento è compreso in Prime, ma l’offerta è importante

C’è una cosa da dire, prima di tutte. Il primato in termini di “famiglie che possono accedere ai contenuti” spetta a Prime Video, con il 30%, ma il dato su Prime Video è viziato dal fatto che è una piattaforma compresa in Amazon Prime e quindi è “gratuita”, cioè compresa nel pacchetto Prime. “Indubbiamente” ci spiega Michele Casula, Partner di Ergo Research. “Nel computo non abbiamo inserito le famiglie che, pur avendo a disposizione Prime Video, scelgono di non usarlo mai o quasi mai. Ma nel tempo Prime Video è riuscita a restringere tantissimo la forbice. Se qualche anno fa c’era una differenza importante tra chi aveva Prime Video e chi non lo utilizzava, questa è una cosa che si è ristretta. È un merito di Prime Video e della struttura della propria offerta, che per mix è il taglio più generalista: c’è la Champions League, e quando sceglie di andare sulle produzioni originali Italia opta per la commedia, su programmi come LOL. È ovvio poi che in virtù del contratto di consumo, c’è un vissuto da semi-free, nel senso che, a monte, hai scelto servizio che è Prime per il delivery nell’ambito dell’e-commerce. Ti ritrovi in più questo servizio come facente parte del pacchetto e non è detto che lo avresti scelto in maniera disgiunta. Ma lo hai a disposizione e fa parte a pieno titolo dello scenario dei servizi SVOD. Di fatto è una subscription un po’ spuria. Però l’essere arrivato a un numero così importante di famiglie è un elemento di valore”.

Il rapporto fra Prime Video e Netflix è 1,43 : 1, quello fra Netflix e Disney+ 2,62 : 1

È interessante anche vedere i rapporti di forza tra le piattaforme, e anche qui c’è qualche sorpresa.  Il rapporto fra Prime Video e Netflix è 1,43 : 1, e non è poco. E quello fra Netflix e Disney+ è 2,62 : 1. Ed è un dato sorprendente, perché la percezione della penetrazione di Disney+ sul nostro mercato era diversa, si pensava più potente. “Da un lato mi colpisce la distorsione precettiva che si ha tra gli addetti ai lavori” commenta Casula. “Anche tra chi si occupa professionalmente di questi temi si ha sempre la propensione ad espandere alla quasi totalità degli italiani quello che vale per le proprie abitudini. Immaginiamo che quello che scegliamo noi stia avanzando a velocità analoghe per l’insieme degli italiani. In realtà non è così, è l’essere arrivati più tardi sul mercato, come vale per Disney+, si associa a una crescita anno su anno che c’è, ma che deve fare i conti con la coabitazione di un numero importante di competitor, e anche con il valore percepito delle alternative gratuite che ci sono e si stanno consolidando, come Pluto Tv. È una fase in cui tutti fanno fatica ad acquisire nuovi clienti, e poi a trattenerli visto che ci sono anche le disdette, di solito bilanciate dalle nuove sottoscrizioni”.

Sky: il 14%, ma con un paradosso

Un dato significativo è il 14% di Sky, che, nel vecchio mondo delle tv, era praticamente un monopolista dell’offerta a pagamento. Oggi ha una quota del 14%, se uniamo anche le sottoscrizioni di NOW, ma il dato porta a riflessioni interessanti. “Le vicende legate ai diritti del calcio hanno inciso non poco sul ridimensionamento della customer base di Sky e NOW, che hanno un sistema di offerta in buona parte sovrapposto” ci spiega Michele Casula. “Sky ha pagato un posizionamento di prezzo che partiva molto alto e poi ha conosciuto delle evidenti rimodulazioni, visto che il valore specifico della parte calcio si è svuotata”. “Ma c’è un paradosso” ci fa notare il Partner di Ergo Research. “Sky in Italia è come se avesse subito un dumping tariffario dei competitor, che sono entrati con prezzi aggressivissimi, creando dei seri problemi a chi, come Sky, avendo delle rendite di posizione, si era assestato su livelli fin troppo alti. Il paradosso è che, incassato il danno, Sky vede accanto a sé un sistema di competitor che di anno in anno sta innalzando i prezzi. Visto e considerato che le famiglie, spesso rimanendo in coabitazione, avendo Sky hanno combinato due, tre, quattro servizi e facendo i conti, il cumulativo degli altri servizi sta andando ben oltre quello che era il posizionamento di prezzo di Sky dell’epoca. Che aveva dentro la quasi totalità delle offerte delle varie major che, nel frattempo, è come se avessero fatto uno spin-off, ciascuna con la propria offerta. Chi vuole ricomporre una completezza analoga a quella della Sky di un tempo, o anche superiore, alla fine già oggi deve spendere di più di quello che era l’abbonamento a Sky”. Un altro dato che fa colpo è l’1% di Apple Tv+, lodata da tutti per i contenuti di altissima qualità, una tivù che tutti sembrano sempre guardare.  “Apple Tv+ ha solo contenuti propri, e il rilascio delle novità è molto più diluito” spiega Casula. “Ma questo nel vissuto dell’utente italiano medio fatica a combinarsi con il sostenere regolarmente quel tipo di offerta. Arriva notizia della serie o film con molto appeal, ma si fa fatica a decidere di sottoscrivere in virtù di un unico top content che stuzzica in quel momento. Il singolo prodotto aiuta la fidelizzazione, ma un nuovo prodotto è difficile che spinga a una nuova sottoscrizione”.

Quasi la metà della popolazione vede solo la tv in chiaro

Un altro dato interessante, che si è scelto di non diffondere ma che ci viene detto tra le righe, è che le famiglie che alimentano il fenomeno sono verosimilmente in numero inferiore rispetto a quanto ci si aspetti (le altre si fanno bastare l’offerta in chiaro).    “Il dato puntuale su quante siano le famiglie che accedono alle piattaforme è uno dei dati che abbiamo deciso di non divulgare” precisa Casula. “Anche se chi si fa bastare l’offerta in chiaro continua a rappresentare quasi la metà della popolazione, una fetta importante della popolazione. E questo è un segnale importante rispetto agli standard percepiti dell’offerta in chiaro. Che non riguarda solo l’offerta lineare: la gratuità riguarda Rai Play, Mediaset Infinity. Un primo dato è questo. E rispetto allo scenario ha una sua rilevanza. Poi c’è il comparto delle famiglie che hanno scelto di accedere a una o più offerte a pagamento. Se tu metti insieme il monte sottoscrizioni, se fossero tutte sottoscrizioni piene, un monte abbonamenti, e calcoli le quote dei diversi player ottieni la torta che abbiamo divulgato. L’altro dato che scegliamo di non divulgare è il numero medio di servizi a cui si accede. Il dimensionamento complessivo della torta è un altro che abbiamo deciso di non divulgare. Parliamo di qualche decina di milioni di possibilità di accesso. È un dato lordo che ha a che far con la possibilità di accedervi”.

Un conto però è la possibilità di accedere, altro è l’effettivo utilizzo

Una cosa da capire riguardo a questa ricerca è che un conto è la “possibilità di accedere”, altro è l’effettivo utilizzo. “Se anche Prime Video e Netflix avessero esattamente un identico numero di famiglie con possibilità di accedere, potrebbe esserci comunque una differenza sostanziale nell’utilizzo effettivo, derivanti dal fatto che nella famiglia X solo alcuni ci accedono e nella famiglia Y vi accedono tutti, e ciascuno dei componenti ha un ciclo di ritorno che per alcuni è quotidiano per altri ogni due settimane” cu spiega Casula. “E questo fa sì che gli utilizzatori nel giorno medio possano ribaltare la situazione, e uno abbia uno usage maggiore rispetto all’altro”. Molto poi dipende dai cicli dei palinsesti, dalle uscite di titoli forti che hanno una loro ciclicità.

Perché scarseggiano i dati ufficiali?

Torniamo al punto dal quale eravamo partiti. Cioè dal fatto che scarseggiano i dati “ufficiali” su sottoscrizioni, abbonamenti e consumi, o sono quantomeno parziali e frammentati. “Si può pensare che molti player di questo mercato, almeno in una fase iniziale, volessero evitare che qualcuno facesse loro i conti in tasca, anche rispetto al valore del loro business in paesi specifici come l’Italia” ci spiega il Partner di Ergo Research. “Negli anni immediatamente successivi al lancio di un nuovo servizio, quando i numeri sono relativamente bassi, si ha poco interesse a dire che le famiglie che accedono sono due-tre milioni. Si aspetta un consolidamento. Questo verosimilmente può essere valso per Netflix nei primi anni. Dopo di che Netflix qualche dato se l’è fatto sfuggire, con una certa approssimazione. Una mezza frase di Hastings come ‘siamo vicini ai 5 milioni’. Ma vicini quanto? Successivamente Tinni Andreatta ha tirato fuori qualche numero sul dimensionamento in Italia. Ma viene fatto sempre in maniera asistematica, non c’è un appuntamento annuo in cui non si dice con chiarezza quali siano le famiglie abbonate che accedono. Netflix ha avviato da tempo una politica di maggior propensione a condividere i numeri che li riguardano. Probabilmente perché, essendo entrati nel mercato pubblicitario, lo spartiacque diventa quello. Agli inserzionisti pubblicitari devi dire quante teste raggiungi, anche se lo dovrebbe dire in relazione alla quota parte che ha quel piano tariffario con pubblicità.

Una ricerca con 7mila interviste

Ecco allora questa ricerca sul “market share di servizi SVOD e pay TV in Italia” che Ergo Research ha deciso di condividere. Si tratta di una ricerca multiclient e multisubject cui aderiscono diversi player che operano nel mercato audiovisivo e dell’intrattenimento, che comporta la somministrazione di oltre 7mila interviste ad un campione rappresentativo degli individui (15+) e delle famiglie italiane. “È un normale esercizio di statistica descrittiva” spiega Casula. “Un dimensionamento di 7mila interviste è un buon dimensionamento. Si riuscirebbero a dire delle cose sensate anche con meno casi. È chiaro che lavori su dimensioni più grandi quando ti interessa cogliere con una certa precisione anche fenomeni relativamente piccoli. Per alcune piattaforme vale. Devi andare a costruire il campione andando a rispecchiare la distribuzione Istat e Auditel, individui e famiglie”.