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Non è tutto sesso quello che vedi. Sul set ora c’è l’intimacy coordinator che svela agli attori i ‘trucchi’ di scena, perché i tempi sono cambiati. Una professione tutta da scoprire. Ce la spiega Beatrice Magalotti

Beatrice Magalotti
di Maurizio Ermisino

Le scene intime dei film hanno sempre destato turbamento, scalpore, a volte hanno creato ferite e polemiche, da Ultimo tanto a Parigi di Bernardo Bertolucci a La vita di Abdellatif Kechiche, fino alla recente serie tv Euphoria. I tempi però sono cambiati, e da qualche anno sui set esiste la figura dell’intimacy coordinator. È una presenza che risponde alle esigenze di linee guida essenziali durante la realizzazione di scene con contenuti intimi sensibili, verbali e non, per garantire spazi di lavoro trasparenti, equi e inclusivi basati sulla cultura del consenso. Per parlare di questa figura, a Venezia, alla Casa degli Autori, lo scorso 3 settembre è andato in scena l’incontro The Art Of Intimacy, un incontro su questa nuova professione a cura di Federica Illuminati.

Ma in cosa consiste davvero il lavoro di un intimacy coordinator? Ne abbiamo parlato con Beatrice Magalotti, coreografa e intimacy coordinator de Il Mostro di Stefano Sollima, del nuovo film di Gabriele Mainetti e di Mrs Playmen, serie tv di Riccardo Donna, una produzione Aurora TV per Netflix programmata per il 2025.

Qual è stata la prima volta che ha sentito parlare della figura dell’intimacy coordinator?

È stata durante una conversazione con una mia amica che aveva iniziato questo lavoro, Luisa Lazzaro, la prima a fare intimacy coordinator italiana. All’inizio ero molto dubbiosa, le posi varie domande. Alla fine mi sono incuriosita: avevo preso in considerazione l’aspetto coreografico e il lavoro sul corpo, il rapporto del regista con i rapporti che si muovono in una dinamica sessuale, e il supporto che come coreografa potevo dare. Ma poi mi si è aperto un mondo: ho capito che ha a che fare con il consenso, che nell’ambito della danza è una cosa meno dichiarata.

Qual è la formazione per diventare intimacy coordinator?

È una formazione che dà una certificazione ufficiale. Io mi sono formata tramite Safe Sets e Anica Academy. Dura un anno ed è suddivisa in tre parti. La prima parte è teorica: fanno vedere cosa fa un intimacy coordinator, le pratiche che deve adottare e il dialogo che deve avere con i vari reparti. C’è una parte pratica, dal vivo, in cui sperimentiamo e ci insegnano come fornire suggerimenti coreografici agli attori. In questa fase ci approcciamo alla sceneggiatura per capire come tradurre in termini di movimento quello che è in scritto nelle scene di intimità. L’ultima fase prevede un tirocinio: andiamo sui set a sperimentare, ed è prevista una mentorship, un momento in cui condividiamo le nostre esperienze. Dobbiamo anche fare dei corsi sulle molestie, le difficoltà psicologiche, i rischi.

Una volta sul set, in cosa consiste il vostro lavoro?

C’è una fase pre-set, in cui leggiamo la sceneggiatura e individuiamo le scene che noi riteniamo a rischio: può essere anche un bacio o un abbraccio, se un minore abbraccia un adulto, anche magari nella storia è la madre. Segnaliamo i possibili rischi e poniamo una serie di domande per avere più informazioni possibili su quel tipo di scena. Nei giorni precedenti le scene dobbiamo contattare gli attori e capire i loro parametri, contattare le figurazioni per accertare che le agenzie hanno dato le corrette informazioni, ad esempio rispetto alla nudità, capire se c’è stata una trasparenza. Ascoltiamo le domande degli attori. Il set è la punta dell’iceberg di un processo avviato i giorni precedenti. Io arrivo sul set molto prima, nei camerini, e mi confronto con attori e figurazioni – chiedo sempre 5 minuti da sola prima del trucco – e mi accerto che quel giorno tutto a loro stia bene: riconfermiamo i consensi perché, come si sa, possono variare. Quindi vado al reparto costumi e mi accerto che ci siano tutte le protezioni stabilite. E a quel punto si va sul set: prima della ripresa ho un dialogo con il regista. E sono presente durante le riprese: ho un accappatoio e chiedo all’attore se c’è il bisogno di coprirlo quando necessario. Di solito per queste scene ci sono set chiusi.  E c’è una parola segreta per cui, se gli attori si sentono a disagio, posso capire e intervenire.

L’abilità nella coreografia può servire anche a coprire certe parti del corpo e rendere i nudi meno espliciti?

L’intervento che posso offrire all’attore, in base ai consensi e al tipo di inquadrature, è un modo di muoversi entro dei parametri. È una cosa che il regista sa già e fa comunque: ma noi possiamo fornire soluzioni in modo che non si vedano delle cose o che non si tocchino delle parti. Ad esempio, se c’è una scena in cui i punti di contatto possono essere i pubi, io posso far capire come far toccare l’anca contro l’anca; in una scena la mano può sembrare sul seno, ma con indicazioni coreografiche le mani non sono su quella parte del corpo. È un lavoro che non riusciamo a fare sempre. Quando possiamo fare delle prove, avere più tempo per capire il movimento, possiamo farlo. Agli attori giovani possiamo fornire degli esercizi attoriali per concentrarsi sul linguaggio del corpo. E c’è una desessualizzazione: entra in scena la danza, usiamo dei termini presi all’anatomia. Accanto all’intimacy coordinator a volte ci sono anche veri e propri coreografi per le scene di nudo, che sono un’altra figura professionale, come è accaduto per il film Queer di Luca Guadagnino.

Come è stato lavorare con Gabriele Mainetti?

In quel caso non c’erano scene esplicite, ma lui ha tenuto a proteggere attori e figurazioni, ha capito la necessità di questo ruolo.

Ci sono stati dei casi in cui il suo intervento è stato importante?

Il primo è un caso in cui capito la difficoltà di questo lavoro. Nella serie Mrs. Playmen ho lavorato con una figurazione che non aveva capito che doveva esporsi in un nudo, l’agenzia lo aveva comunicato ma non in maniera chiara. Nel colloquio, che faccio ogni volta dopo due giorni, la modella mi ha detto che si era sentita molto pressata, anche da me, a fare le scene di nudo, e mi è dispiaciuto. Alla fine era stata coperta. Questa cosa mi ha fatto capire che devo avere dei radar, intuire bene ogni parola da dire e come. La modella mi ha ringraziato dopo che aveva capito il malinteso. Ma ho sentito un piccolo fallimento e ho capito quanto è importante parlare.

Qual è l’altro caso che le è capitato?

Sul set de Il mostro di Stefano Sollima c’è stato un momento in cui gli attori dovevano essere nudi dentro una macchina per una scena intima, ma girata a distanza. Un’attrice non era stata informata, e quando il regista ha detto “nudi” all’improvviso, abbiamo dovuto mediare. La scena poi non è stata fatta completamente nudi, il regista è stato molto disponibile. L’improvvisazione succede spesso nei set. Gli attori sono super esposti, si mettono a nudo anche in senso metaforico. Questa cosa va capita e rispettata, e noi siamo loro d’aiuto.

Un tempo capitava che alcuni registi non fossero corretti con le attrici, che si sono sentite violate. I risultati artisti erano notevoli, ma moralmente non era accettabile. Si possono avere grandi risultati essendo corretti per questi aspetti?

Questo è proprio il punto, il concetto fulcro della nostra figura. Da coreografa forse anch’io avrò spinto i danzatori verso certe condizioni e capisco il meccanismo necessario per un prodotto artistico. Oggi si può raggiungere lo stesso risultato trovando delle soluzioni che ci sorprendono. A volte quel tipo di metodo, quello realistico, non è detto sia l’unica strada, a volte diventa un automatismo che il regista ha perché sa fare quello. Ci sono attori che si danno completamente. E non sono d’accordo su un certo servilismo se non c’è un consenso libero. Fai una cosa se la vuoi fare veramente, se è un processo di trasformazione che ti serve. Oppure possiamo farne a meno e la performance sarebbe comunque quella? Dobbiamo farci sempre questa domanda. Perché i tempi sono cambiati.

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