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Inchiesta: che fine ha fatto il Festivalbar? Ci manca? Pensateci, un’esperienza unica, pre social, da condividere, ma che ha cessato di esistere perché non lo guardava più nessuno. Oggi i festival sono tanti e li fanno i brand e le radio

di Maurizio Ermisino 

Siete anche voi tra quelli a cui manca il Festivalbar, quell’evento unico e irripetibile che caratterizzava le nostre estati e ci portava ogni anno le novità dal mondo della musica? In tanti lo rimpiangono, un grande evento mediatico e commerciale. Oggi che i modelli di business in questo settore sono cambiati, a replicare quel modello sono le radio e i brand. Così sono nati, tra gli altri, Tim Summer Hits, Radio Norba Cornetto Battiti Live, Radio Zeta Future Hits Live e Power Hits Live (Rtl 102.5) e I-Days Milano Coca-Cola, che è un festival di un altro tipo, con concerti dal vivo, ma è un caso interessante. Ne abbiamo parlato con Stefano Chiarazzo, Founder & Managing Director della società di reputazione digitale Pubblico Delirio e autore del libro Business Content Creator. Guida pratica per chi crea contenuti per aziende e brand (FrancoAngeli, 2024), e con Marco Biondi, nome storico della radio italiana, conduttore radiofonico, presentatore, autore, consulente radiofonico e musicale.

Che cos’era il Festivalbar?

“Quando eravamo ragazzi il Festivalbar era la trasmissione che guardavi prima di uscire, o quando eri al mare” – commenta Chiarazzo –Raccontava i trend dell’estate, faceva scoprire nuove canzoni, premiava gli artisti più ascoltati, contribuendo a creare quei tormentoni estivi che poi ascoltavi con apparecchi oggi desueti come i juke-box, i giradischi, i “mangianastri” e i lettori CD”. Era focalizzato su alcune location iconiche come l’Arena di Verona che ne ospitava le finali, un luogo magico che creava un legame con la famiglia Salvetti e con l’ecosistema Mediaset. “Era un’abitudine rassicurante” – continua Chiarazzo – “Un’esperienza pre-social condivisa che le nostre famiglie e amici portando intrattenimento e generando discussione ovunque, dai divani alle piazze”. Era anche una sorta di monopolio: impossibile non passarci, non guardarlo, non parlarne. Ma cosa aveva di speciale? “Il fatto di essere l’unico dava quel tocco di originalità. Sapevi che l’elemento dell’estate era il Festivalbar. Che radunava, in tante puntate, il meglio della musica popolare estiva: il pop e il rock di quel periodo” – ci spiega Marco Biondi – “Al Festivalbar, come a Sanremo, c’erano tanti artisti stranieri e questo dava un senso di globalità. Ricordiamo però che ha cessato di esistere perché non lo guardava più nessuno. La nostalgia del Festivalbar mi fa un po’ sorridere. Perché ormai ne abbiamo almeno cinque o sei. L’unica differenza è che non si chiamano Festivalbar”.

È la musica che è differente

È questo che pensa Marco Biondi, che aggiunge “L’unica cosa che si disperde, avendo tanti eventi, è che non c’è più un vincitore. Ogni anno il Festivalbar proclamava un vincitore ( prendeva anche cantonate clamorose perché ad esempio i Righeira con Vamos a la Playa non vinsero). Oggi abbiamo più manifestazioni con bene o male gli stessi ospiti ma vincitori diversi. È difficile quindi la canzone dell’estate”.

Anche il modello di business è diverso

La televisione era il media dominante, produceva un programma e provvedeva alla raccolta pubblicitaria. “Nel duopolio televisivo RAI-Mediaset, oltre a Sanremo i brand più giovani investivano lì, soprattutto i più stagionali” – commenta Chiarazzo – “Negli anni sono stati tanti i tentativi di creare un nuovo Festivalbar. Il più longevo è Battiti Live di Radio Norba, la Radio del Sud, che dal 1995 ha creato un ecosistema mediatico (e pubblicitario) molto stretto tra radio, TV e territorio. Poi successivamente il digitale ha allargato a nuove opportunità transmediali soprattutto per quei gruppi editoriali che possiedono tutte le tipologie di media. Motivo per cui Mediaset dal 2017 ha voluto puntare proprio su Battiti Live, con una partnership che l’ha portato così ad una rilevanza nazionale”.

Il branded entertainment ha cambiato le cose

Una volta c’era il Festivalbar, brand a sé stante. Adesso il brand finanzia il festival, lo crea insieme all’editore e gli dà il suo nome. “Tra gli esempi di brand che negli ultimi anni hanno accostato il proprio nome ad un programma musicale, TIM, Wind, Cornetto e Coca Cola” – racconta Chiarazzo – “Potenziale pubblicitario che ha colto anche Radio Bruno con lo Yoga Radio Bruno Estate in onda in radio e radiovisione”.

Oggi le tivù hanno il loro festival, ma è creato con i brand e le radio

“Investire sui format musicali in TV costa, è una scelta comunicativa che non è per tutti. Lo è per quei grandi brand il cui impatto in termini di popolarità e familiarità porta benefici diretti per le vendite in periodi di alta stagionalità”, ci spiega Stefano Chiarazzo. “Sicuramente per le marche del food & beverage, in un periodo in cui si consumano più bevande dissetanti e cibi freschi. O per le telefoniche come TIM che, non essendo più sponsor di Sanremo, vede tali format come opportunità strategiche per continuare il proprio posizionamento sul tema musica”. Oggi questo tipo di eventi funziona nel momento in cui non ti fermi al fatto di essere title sponsor o main sponsor, cioè solo all’awareness. “Il migliore ritorno dell’investimento lo ottieni quando ti poni come obiettivo anche la costruzione e il rafforzamento della tua community di brand lover” riflette Chiarazzo “Coca-Cola, per esempio, ha sempre lavorato di story making, pensiamo adi iniziative come Dillo con una canzone”.

Branded Content in ecosistemi mediatici in linea con il brand

“Questo lavoro di brand integration è molto importante, nel momento in cui non si parla più solo di tv, ma anche di radio, social, streaming digital, territorio, con road show a tappe in location fisiche, piccole e grandi” sostiene Chiarazzo. A proposito di location, anche nei nuovi festival torna spesso proprio l’Arena di Verona, che evoca il Festivalbar: il premio RTL Power Hits Live e i TIM Music Awards andranno in scena lì, a settembre. Quando si parla di ecosistema radio-Tv, i poli più grandi sono quelli noti. “Rai con le proprie radio, in particolare Radio 2, la più giovane, che accompagna sempre gli eventi musicali di RAI TV. Poi c’è il mondo Mediaset, con Canale 5 più Radio Norba. E il mondo RTL, con i Radio Zeta Future Hits Live che vanno anche su RTL 102.5, Sky, Now e Tv8. Anche Radio Italia Live, con il suo concerto di musica italiana, è in partnership con Sky”. I brand radiofonici lavorano poi anche in modo diverso territorialmente, su target specifici. Radio 105 e Virgin Radio, supportano gli I-Days Coca-Cola; Virgin anche Firenze Rocks e Lucca Summer Festival. Molte radio hanno il proprio festival, vedi 105 Summer Festival e RDS Summer Festival. Radio Deejay organizza il suo Party Like A Deejay mentre il Deejay Time è a Rock in Roma: “Una strategia molto originale e differenziante: un loro evento periodico che celebra il brand e poi il tour estivo di un programma molto amato che entra anche in cartellone in un importante festival romano”.

La parte social è importante

Anche perché i social non sono solo quelli della tivù e della radio, cioè degli editori. “C’è un’attivazione dei brand ambassador, dai presentatori agli speaker ai cantanti, lavorando sugli hashtag e contribuendo a creare hype” analizza Chiarazzo”. Qual è dunque il valore di operazioni come queste? “I progetti che fanno davvero la differenza sono quelli in grado di coinvolgere tutta la filiera, non solo editore e inserzionista. La differenza, come editore e brand, la fai se riesci a coinvolgere a livello editoriale e commerciale il mondo della musica: ogni singolo cantante oggi è un influencer che vende i propri post monetizzando un’audience affezionata”. E sul territorio è importante coinvolgere le istituzioni. “Quello di Radio Norba è un modello molto virtuoso, con una partnership con Regione Puglia che lavora molto bene in termini di promozione turistica”.

C’è però un rischio omologazione

“Sia per l’editore che per il brand è importante dare personalità al programma, perché possa vincere la concorrenza e creare un legame forte con i telespettatori” – riflette Chiarazzo – “Il rischio che vedo, per la necessità di attrarre un pubblico più ampio possibile, è che molti format si somiglino, a partire dalle line up dei cantanti”. Questo vale soprattutto per programmi che vanno in onda sulle reti generaliste, con una differenziazione che passa spesso più dal periodo di on air al fine di evitare sovrapposizioni. Questi programmi aiutano i brand ad arrivare ad un pubblico orizzontale, ma per brand con un pubblico più verticale o territoriale le scelte possono essere diverse.

Le conduzioni, perché sia sempre più evento televisivo

“Nonostante il ruolo crescente delle radio a partire dal design del format, a volte si opta per la conduzione di volti più noti sul piccolo schermo. Il cambio alla conduzione di Battiti Live ne è un esempio” – commenta Chiarazzo – “Negli anni i volti e le voci di Alan Palmieri, Elisabetta Gregoraci e, poi, Mariasole Pollio avevano contribuito alla creazione del brand. Con le loro caratteristiche e con le dinamiche pensate dagli autori rappresentavano gli archetipi del papà, della mamma e della figlia, una famiglia rassicurante che portava visivamente il concetto della radio come “compagna di vita”. La scelta di personaggi come Ilary Blasi, Alvin e Rebecca Staffelli segna un passaggio importante all’era Mediaset, con logiche più televisive e di natura commerciale”.

Ma se tornasse il Festivalbar, oggi, funzionerebbe?

“Se tornasse il Festivalbar non cesserebbero le altre manifestazioni” commenta Marco Biondi. “Non sarebbe più l’unico e non avrebbe vita facile avrebbe un marchio forte ma i concorrenti non abbasserebbero la guardia e probabilmente anche il Festivalbar avrebbe gli stessi artisti degli altri. Per cui non sarebbe comunque più quello che il Festivalbar è stato”.