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Come cambierà il modo di fare economia e consumare nell’era dell’incertezza? Polarizzazione e de-globalizzazione richiamano l’attenzione sul benessere degli italiani. Perché se è vero che il nostro Pil cresce e che il Made in Italy all’estero fa faville, solo in pochi se ne stanno accorgendo. Il lusso, insomma, non può essere tutto

Come sembra giustamente sostenere l’intento di approfondimento del convegno ‘La Filiera dei Beni di Consumo nell’era dell’incertezza’ a firma IBC-Associazione Industrie Beni di Consumo, tenutosi ieri a Milano.

E se il Ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha dato l’annuncio dell’aumento dell’indice di fiducia di imprese e consumatori, Alessandra Ghisleri, direttrice Euromedia Research, dipinge gli italiani sempre più attenti alle loro spese, alle prese con il fine mese e spesso dovendo pianificare qualsiasi acquisto. Complice l’incertezza alimentata ora da un’inflazione, non più solo importata, che sembra non arrestare, come è chiaramente emerso nell’intervento di Tito Boeri, Economista Università Bocconi, che ha puntato anche il dito sulla sperequazione nella distribuzione dei redditi.

Eppure i ristoranti sono pieni, ha fatto eco Giuliano Noci, docente Politecnico di Milano, mettendo il dito sulla piaga di una polarizzazione che si fa gioia e dolore del nostro sistema, ma non solo, della situazione internazionale.

Basti pensare che le nostre esportazioni (la Cina assorbe il 50% dei prodotti di lusso) sono passate dai 430 miliardi del 2020 ai 600 del 2022 e che il Made in Italy gode di un pregiudizio positivo forse ancora non interamente sfruttato dalle aziende.

Insomma, i nostri prodotti devono ambire a posizionamento e target premium, evitando di cadere nella commoditizzazione, così poco consona a un tessuto industriale da piccole medie imprese, non da scala.  E la raccomandazione è anche di uscire dalla trappola di un Made in Italy fatto tutto di eccellenza di prodotto (ben 3000 i nostri sul podio del top globale).

Oggi all’eccellenza si devono unire le esperienze, ossia la capacità dei brand di gestire la relazione con il mercato. Ovviamente comunicazione, digitalizzazione, selettività delle strategie di internazionalizzazione, attenzione alle persone, perché la qualità del capitale umano è tutto. Le tecnologie hanno sempre sublimato l’uomo.

Le esportazioni crescono, eppure si dice che siamo nell’era della de-globalizzazione. Complici gli avvenimenti degli ultimi anni, dalla pandemia alla guerra, dalla crisi delle banche più deboli dei paesi più ricchi, all’asse Cina – Russia, che potrebbe trasformare il nostro mondo.

Il tutto mettendo in guardia sull’esigenza di creare mercati interni forti. Quindi politica demografica, benessere diffuso, lavoro.  Meno polarizzazione (ma come negare che l’era della tecnologia se non gestita porta alla creazione di oligopoli difficili da smantellare e che l’AI potrebbe dare il colpo di grazia alla molpeplicità?) e più ricchezza diffusa? Sicuramene una sfida da iniziare da subito, per i governi di oggi e del prossimo futuro.

Nel frattempo uno sguardo ai giovani. Non cercano più la stabilità, lo ha sottolineato a chiare lettere Maurizio Molinari, Direttore la Repubblica, ma l’esperienza in grado di dare loro più valore. Insomma, esperienze che diano più conoscenza e dunque ricchezza.

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