di Maurizio Ermisino
Tutto è rosa, già a partire dal famoso logo della Warner Bros che apre ogni film, e che qui è colorato secondo lo stile della bambola più famosa del mondo.
Stiamo parlando di Barbie, l’attesissimo film di Greta Gerwig in uscita al cinema in Italia il 20 luglio, che è stato presentato ieri a Roma e Milano in un’anteprima per la stampa e per molti influencer. Molte donne e ragazze vestite di rosa, e anche qualche uomo con la maglietta di Ken.
Dopo il logo della Warner Bros, un’altra scritta ci dice chiaramente che cos’è questo film: è ‘A Mattel Production’, e vuol dire che la famosa casa di giocattoli produce direttamente quella che è una delle più grandi operazioni di Branded Entertainment mai realizzate, pari solo a The Lego Movie.
Ma è anche molto di più. Per Barbie, che è un brand nel brand, è anche una sorta di riposizionamento, di apertura del marchio ai valori dei nostri tempi, verso l’inclusività, l’empowerment femminile, la tolleranza.
Oggi che è fondamentale che ogni brand sposi decisamente dei valori, Mattel e Barbie fanno anche una sorta di autocritica per come il giocattolo è stato visto finora, per come ha proposto, secondo molti, un’immagine irraggiungibile della donna. E sono qui per dirci che, in realtà, Barbie è sempre stata, ed è, molto altro.
Barbie: le donne possono essere chi vogliono
Il primo messaggio arriva all’inizio del film, in una sequenza che cita 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Le bambole ci sono sempre state, ma in principio erano dei bambolotti, cioè l’immagine di bebè, e questo faceva sì che le bambine, quando giocavano, potevano essere solo delle mamme. Barbie ha portato l’immagine di una donna adulta, che poteva essere qualsiasi tipo di donna. E così le bambine potevano immaginare di essere chi volevano. Dopo l’incipit, inizia il film vero e proprio e ci troviamo a Barbieland, dove tutti i personaggi femminili si chiamano, anche tra loro, Barbie. Ma la protagonista, Margot Robbie, alta bionda e con gli occhi azzurri, si chiama proprio ‘Barbie Stereotipo’. Che è un modo molto ironico per dire che, sì, in effetti, in questi anni Barbie ha portato avanti un modello stereotipato e irraggiungibile di bellezza. ‘Fai sentire le donne sbagliate, hai fatto arretrare il mondo di 50 anni’, si sente dire poi da una ragazzina, una volta arrivata nel mondo reale. Ma in Barbieland ci sono in realtà Barbie molto diverse tra loro: diverse etnie, diverse caratteristiche fisiche. Ci sono donne che possono raggiungere qualsiasi professione e qualsiasi livello di carriera: la giornalista, la dottoressa, la scienziata, la presidente, il premio Nobel. Ecco cosa ci dice il film: forse negli anni ha dato un’immagine sbagliata e stereotipata, irraggiungibile, della donna. Ma Barbie voleva essere altro: voleva spingere le donne ad essere chi volevano essere.
Non c’è nessuna donna al comando?
Una delle caratteristiche vincenti di Barbie, sin dall’inizio, è che dichiara esplicitamente la natura di giocattolo della bambola. Non c’è, come in Transformers, la trasposizione dei giocattoli in un mondo reale: siamo più dalle parti di The Lego Movie (che però dichiarava la cosa solo alla fine), in cui i giocattoli sono tali, vivono in un loro mondo dove sono fatti perché qualcuno giochi con loro. In questo senso il prodotto è chiaramente il centro del film, e non si fa mistero che sia un giocattolo. La casa produttrice, la Mattel, mette la faccia, cioè il marchio, nell’operazione, e non è da tutti. In una fuga dal mondo di Barbieland verso il mondo reale della protagonista, che è la chiave del film, la nostra Barbie Stereotipo si trova a visitare la sede della Mattel. E scopre che, a tirare le fila di un giocattolo al femminile, ci sono solo uomini. ‘Non c’è nessuna donna al comando?’ si chiede un’ingenua Barbie appena arrivata nel nostro mondo, alla riunione dei piani alti della casa madre. Ecco un’altra autocritica, che Mattel rivolge non solo a sé quanto a tutto il mondo. Deve esserci più spazio per le donne. E deve esserci davvero, non solo a parole. Una volta arrivata nel mondo reale, Barbie scopre che è tutto il contrario di quello in cui è vissuta: a comandare sono gli uomini, sente su di sé sguardi di un certo tipo, doppi sensi, vige il patriarcato.
Un riposizionamento del marchio in senso valoriale
Barbie quindi non è solo una grande operazione di Branded Entertainment, volta a rilanciare uno dei giocattoli più famosi di tutti i tempi. È anche un’operazione di riposizionamento del marchio, non in senso commerciale, ma in senso valoriale. Come ogni moderno brand, anche Mattel e Barbie sposano dei valori. E sono l’inclusività, la diversità, l’empowerment femminile, il diritto di ogni bambina e ogni donna ad essere se stessa e a trovare la propria strada. Va in questo senso anche la partnership con l’organizzazione internazionale Save The Children, che da anni è impegnata a fornire alle bambine di tutto il mondo l’accesso all’istruzione e alle risorse e a fare in modo che possano esaudire i propri sogni. Il progetto Barbie Dream Gap Project è nato proprio per sostenere Save The Children in questo percorso.
Non solo Barbie: Birkenstock, Chevrolet, Chanel…
Cosa più unica che rara, Barbie è un’enorme operazione di Branded Entertainment che mette in scena la storia di un brand storico, ma che al suo interno ne ospita anche altri. Guardando il film ne abbiamo individuati alcuni. Il primo è Birkenstock, il noto marchio di calzature comode, al centro di due gag interessanti, all’inizio e alla fine del film, che giocano con l’arrivo di Barbie nel mondo reale, dove forse non userà le sue famose scarpe con il tacco. Una brand integration molto riuscita, per come è inserita organicamente nel racconto. Come lo sono le altre: Chevrolet, il brand di automotive, firma la macchina rosa con cui Barbie lascia il suo mondo per viaggiare verso il nostro: macchina chiaramente giocattolo, ma con forme e marchio della prestigiosa casa automobilistica americana. E, alla fine del film, quando Barbie torna elegante e seducente, sfoggia una borsa e una collana decisamente griffata Chanel. L’integrazione di brand noti in un film che è diretta emanazione di un brand può diventare un caso di studio ed è destinata a fare la storia di questa particolare e affascinante branchia del marketing. Ma le operazioni di co-marketing legate al film sono potenzialmente infinite: Burger King Brasile, ad esempio, ha lanciato il menù a tema Barbie, con il cheeseburger condito con una salsa color rosa shocking, stesso colore del milkshake alla vaniglia. Prepariamoci a un mondo colorato di rosa per i prossimi mesi.
Ogni donna ha diritto di scrivere il proprio finale
Barbie (il film è diretto da Greta Gerwig che ha curato la sceneggiatura del film insieme al candidato all’Oscar Noah Baumbach, quanto di meglio si possa trovare oggi a livello di raffinatezza di scrittura) è il viaggio di un marchio verso il presente e il futuro, ma anche verso il passato. Che – ecco ancora un’autoironia che raramente troviamo in un brand – è fatto anche di scelte di marketing sbagliate. E così, integrate nella storia e poi visibili chiaramente sui titoli di coda, ecco scorrere una serie di prodotti lanciati accanto a Barbie che non sono stati proprio dei successi: da Skipper Babysitter, a Growing Up Skipper, la bambina che troviamo spesso accanto a Barbie e che in questo caso era previsto crescesse e acquisisse delle forme. O alter ego della famosa bambola, come Teresa, o ancora versioni improbabili della stessa, come Barbie Video Girl. La storia di un brand è fatta di successi e insuccessi, e Barbie ci racconta anche questi. Ci sono anche degli storici abiti, che vengono enfatizzati con delle scritte, come se fossero in una vendita on line. La creatrice di Barbie, impersonata da un’attrice, ammette che ha creato la bambola perché non avesse un finale. E lascia libera la nostra Barbie di scriverselo da sé. Coerentemente con quello che ci ha raccontato per tutto il film, Barbie ci vuole dire questo: ogni donna ha diritto di scrivere il proprio finale, quello che più desidera per la sua vita.