È toccato a WE ARE SOCIAL oggi commentare i trend che sono stati delineati dalla ricerca ‘Digital 2023’ nella sede dell’agenzia a Milano: ecco allora che all’appuntamento ‘Social media: la fine di un’era?’ c’erano Jerome Courtial, Strategy Director; Marta Prosperi, Strategy Supervisor; Andrea Lombardi, Media &Distribution Director; Giuseppe Schiavone, Editorial Director; e Donato Falotico, Research & Insight Director; per tentare di dare una risposta all’essenziale quesito se i Social Media abbiano imboccato la definitiva parabola discendente, o se invece siano soggetti a una trasformazione che sta miscelando un po’ le ‘vecchie’ convinzioni su target, follower e finalità, risultando in un quadro generale di innovazione che è ben diverso dal declino frettolosamente descritto da non poche testate.
Innanzitutto, e questo è quanto era già emerso dalla Ricerca, i social media non mostrano in generale segni di un declino: non quelli tradizionali, a partire da Facebook e da Instagram, che viaggiano sopra i 2,6 e 2,4 miliardi di utenti unici. E neppure quelli che si sono aggiunti più recentemente, da Telegram a Discord, mostrano segni di flessione , ma confermano che la trasformazione in atto – questi sono social media che raggruppano comunità basate sugli interessi – non comporta necessariamente il declino dei primi, che continuano ad essere visti come mezzi per essere informati sui propri conoscenti (fossero pure solo virtuali) e come proxy dei media digitali per tenersi informati di quello che succede nel mondo.
Nè la recente e crescente attenzione alla proprietà dei dati e alla privacy (soprattutto in Occidente, va detto) è stata in grado di abbattere i social media che sono da anni riferimenti della gente a livello internazionale, ma sta facendo sorgere piattaforme Web3 che si vanno ad aggiungere, e non a sostituire, a quelle esistenti. Anche la preferenza per i video brevi, alla base dell’esplosione di TikTok e del successo (o della ‘rinascita’ di YouTube), con oltre due miliardi di utenti unici ciascuno mostra che siamo in presenza di dinamiche diverse ma non escludenti, che portano alla formazione di un’infinità di raccomandazioni dei singoli che vanno a integrare meccanismi consolidati quali gli algoritmi, per guidare le scelte individuali.
Riconosciuto che non ci si trova di fronte a un declino dei social media, parlando in generale (casi Clubhouse sono sempre possibili, ovviamente) rimane da definire dove si colloca l’industria dell’Influencer Marketing, tra i due estremi: sull’orlo del fallimento, da un lato, o alla vigilia di un boom appena iniziato, sull’altro. Di sicuro, guardando agli investimenti, il 2022 è stato un anno molto positivo, con una crescita dello spending del 15% a fronte del 9% di tutto il comparto del digitale. Ma i cachet stellari dei top influencer sono giustificati da un ROAS adeguato? Questa è la domanda delle cento pistole: è infatti arrivato il momento, secondo We Are Social, di misurare adeguatamente i ritorni delle campagne, non solo basandosi sulle vendite, ma utilizzando tutti parametri classici della pubblicità, dall’awareness al ricordo sollecitato, arrivando fino all’utilizzo dei paid media, che non sono elementi isolati, ma vanno integrati in un tutt’uno da parte dei brand per arrivare al risultato voluto.
Senza dimenticare che nelle ultime settimane è emerso un altro indirizzo paradossale: quello dei ‘deinfluencer’ che sconsigliano l’acquisto di determinati prodotti perché non in linea con quanto promesso, o per ragioni etiche, o di non rispetto dei valori sempre più presenti presso i consumatori, soprattutto i giovani, ma non solo: sostenibilità, green, cruelty free e così via.
Questi ‘deinfluencer’ non sono pagati dai concorrenti per ‘calunniare’ i prodotti altrui, ma rappresentano la logica evoluzione della attese e delle speranze dei nuovi consumatori, cresciuti in mezzo alla pubblicità e alle tecniche ci comunicazione sempre più raffinate, che vogliono dire basta a questi approcci per ritornare ai veri valori essenziali del brand. Che i brand dovrebbero avere sempre molto presenti e che in alcuni casi hanno trascurato di implementare.
I social media, insomma, stanno cambiando, diventando un ‘occhio critico’ che utilizza nuovi modi di comunicare per comprendere e condannare la ‘malfuzionalità’, per mettere in piena luce gli autentici pregi – e i difetti – dei brand a cui si approccia in modo progressivamente più neutro e oggettivo, pronti farsi cullare da uno storytelling creativo, ma altrettanto vigili a scoprire e definire eventuali incongruenze tra ciò che si è e ciò che si vorrebbe apparire.