Venerdì 16 giugno, nell’ambito dell’evento ‘We Make Future’ alla Fiera di Rimini, si è tenuto un evento che ha richiamato un pubblico ‘strabocchevole’, che ha ecceduto i pur numerosi posti sedere previsti: l’intervento (in presenza, è opportuno sottolinearlo, vista le tante video conferenze che la fanno da padrone in occasioni simili) di Sir Timothy John Berners-Lee.
Lo scienziato – colui che ha inventato il World Wide Web come lo conosciamo oggi – non si è limitato a fare una pur apprezzabile rivisitazione storica della concezione e della successiva evoluzione del www, ma è entrato con tutti e due i piedi nel piatto, come affermano i francesi, esaminando quelle che – a suo parere – sono tre delle principali minacce attuali all’internet.
“All’inizio eravamo – si sta parlando del Cern di Ginevra, ndr – entusiasti perché il web avrebbe consentito a tutti di esprimersi“, ha evidenziato Sir Tim, ma oggi abbiamo davanti sfide epocali che possono mettere questa stessa libertà a rischio. Anzi, in molti paesi del mondo, questa libertà non è più considerata tale, per ragioni politiche o economiche (basti pensare a quello che stanno diventando i social media, americani o cinesi che siano)”.
In effetti, è sufficiente riflettere sul numero incommensurabile di persone che, per superficialità e comodità, come in Occidente, o perché non hanno possibilità di scelta, come in Cina con le telecamere e riconoscimento facciale, sono disponibili a cedere tutti i loro dati ai walled garden, da Google a Facebook, da Instagram a TikTok, per essere assaliti dallo sconforto.
Come è noto, la posizione dell’inventore del web è molto critica circa la proprietà e il salvataggio dei dati dell’utente da parte delle aziende, e si batte per riportare il World Wide Web a come era stato ideato nel 1989. Ha perfino lanciato nel 2018 il progetto ‘Solid’, che mira a dare agli utenti un maggiore controllo sui loro dati personali e permette loro di scegliere dove vanno a finire i dati, chi può vedere certi elementi e quali app possono vedere quei dati. Ma qui la situazione si spostata decisamente oltre.
Da un lato per le difficoltà tecnologiche connesse ad attivare un protezione efficace dei dati sensibili: “La blockchain non funziona”, ha affermato. “È complessa, lenta e invece di impedire la divulgazione dei dati, li rende disponibili su centinaia di server per garantirne l’immutabilità”.
Dall’altro per l’ingresso in campo dell’AI che, per ora, ma prevedere il futuro è improbo, può essere considerata una minaccia per due ragioni principali: la prima è relativa ai dati che sono stati utilizzati, e che verranno utilizzati in futuro, per alimentarla e svilupparla; la seconda è quella dei deep fake. Non che questo problema sia connesso all’AI – esisteva anche prima – ma l’AI sta permettendo di scrivere testi, produrre immagini e registrare filmati di una qualità senza precedenti, in una quantità tale da permettere ai bot appositi una distribuzione senza precedenti, indirizzata e personalizzata sulle caratteristiche personali capaci di profilare ogni destinatario.
Tutti queste sfide sono ricche di potenziali grandi pericolosità, e l’Unione Europea – con GDPR e con il prossimo AI Act – sta cercando di porvi rimedio, con il necessario aggravio dei costi e delle formalità burocratiche per le aziende ligie al regolamento. Ma l’EU è solo una frazione del mondo e nel resto del globo le cose sono ben diverse.
“Nel frattempo”, è stata la la conclusione di Sir Tim, “cercate di dire il meno possibile quando parlate con Chat GPT. Ogni informazione che rivelate può essere usata ‘contro di voi’… dall’AI”.