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Il New York Times fa causa a OpenAI e a Microsoft per difendere il proprio copyright sugli articoli, ‘preda’ dell’AI. Ma forse è già troppo tardi, nonostante i risarcimenti richiesti: potenzialmente miliardi di dollari

NYC Building
di Massimo Bolchi

‘La battaglia dei Giganti’: il titolo italiano del film di guerra del 1965 potrebbe riassumere ciò che sta succedendo – la versione originale, The Battle of the Bulge, purtroppo non si presta – presso la Corte Federale di Manhattan, dove il New York Times, la maggiore media company giornalistica statunitense, ha querelato Microsoft e OpenAI, le due società dietro lo sviluppo di ChatGPT e Copilot, per ‘copyright infringement’ perché avrebbero utilizzato, senza che il titolare dei diritti fosse d’accordo, l’enorme archivio online del NYT per alimentare la propria Artificial Intelligence.

Risultato? Estratti quasi testuali degli articoli in risposta ai quesiti posti, senza alcuna referenza al giornale e agli autori, secondo il querelante, e ‘allucinazioni’ che mischierebbero parti autentiche e altre inventate in una miscela indistinguibile e, di nuovo, senza alcun riferimenti al quotidiano dove sarebbero state prese ‘abusivamente’ le informazioni fornite agli utenti.

Il danno ricevuto dal NYT da questi comportamento sarebbe talmente enorme da non poter essere nemmeno quantificato: si parla comunque di miliardi di dollari richiesti come rimborso. Questa è la prima causa giudiziaria che vede in campo contendenti di queste dimensioni: finora le domande dei ricorrenenti erano state più contenute, si era parlato delle rivendicazioni di un’attrice dulla propria biografia o dell’uso improprio di una banca dati fotografica. Qui invece OpenAI, valutato 80 miliardi di dollari, e soprattutto Microsoft, quotato oltre 2.500 miliardi, sarebbero tenuti, se perdessero la causa, a rifondere danni a 9 o 10 zeri.

Chi fosse interessato trova qui il PDF presentato dal NYT a sostegno della propria posizione.

I media, intesi come aziende giornalistiche e no, non hanno fatto trascorrere senza fare nulla l’anno appeno trascorso: hanno esaminato le implicazioni legali, finanziarie e giornalistiche dell’esplosione dell’uso dell’Intelligenza Artificiale generativa, ChatGPT in primis. Alcune testate giornalistiche hanno già raggiunto accordi per l’utilizzo dei loro prodotti: l’Associated Press ha concluso un accordo di licenza con OpenAI nel luglio scoro, e Axel Springer, l’editore proprietario di Politico e Business Insider, ha fatto lo stesso questo mese. I termini di questi accordi non sono stati comunque resi noti, e questo rende impossibile, al di là dei pettegolezzi più o meno attendibili, valutare dove si collochi l’equilibrio tra produzione di contenuti e sfruttamento degli stessi da parte dell’AI.

Lo stesso NYT sta studiando come utilizzare questa tecnologia, stabilendo i protocolli per l’uso dell’A.I. da parte della redazione ed esaminando come integrare la tecnologia nel giornalismo ‘quotidiano’ prodotto. Ma la causa legale, se si arriverà a sentenza, è senza dubbio destinata a segnare una pietra miliare nello sviluppo dell’AI. Tant’è che la stessa OpenAI stava trattando con il NYT i termini di utilizzo dei suoi scritti, per cercare di ottenere un accordo di licenza. Ma come ha dimostrato l’evoluzione di ChatGPT – prima Gpt 3, poi GPT 3,5, infine GPT 4, ora anche Copilot, il tutto in meno di una anno – i tempi dell’AI non sono compatibili con le lungaggini di una trattativa commerciale. E secondo i legali del NYT il confine è stato superato in fretta, con l’asserita violazione del copyright: non limitata ad alcuni casi, ma generalizzata e omnicomprensiva. Scrivono infatti nell’atto di citazione “using the valuable intellectual property of others […] without paying for it has been extremely lucrative” affermando che OpenAI e Microsoft avrebbero utilizzato milioni di articoli del NYT per ‘addestrare’ la propria AI.

I processi negli USA sono piuttosto brevi, comparati a quelli europei (lasciando perdere l’Italia…) come mostra anche il caso di Apple vs. Epic Games: tre anni dall’udienza iniziale alle pronuncia della Corte Suprema. Ma anche tre anni sono forse troppi per arrivare a una regolamentazione di un tema così scottante. E nel frattempo che cosa si fa? Teniamo conto che c’è già chi, come la società di VC Andreessen Horowitz, vede minacciata la posizione di leader globale dell’AI degli Stati Uniti da una eccesso di regole. Forse c’è solo da sperare che l’AI Act dell’Unione Europea riesca davvero a scrivere un regolamento chiaro e sia di ispirazione per tutti, prima che le cose si complichino ancora di più.