Sono proprio da commiserare i direttori commerciali dei publisher: ogni volta che riescono a capire come Google veda il cookieless advertising di terze parti, il sistema cambia. A volte molto, altre volte solo un po’, sempre abbastanza, comunque, per impedire loro di formarsi un’opinione completa su ciò che sta accadendo. L’ultima proposta del gigante tech per il targeting senza cookie di terze parti – Topics – non appare rappresentare una soluzione differente.
Da ricordare che questa soluzione, i cosiddetti Topics appunto, è apparsa dopo che Google aveva deciso di abbandonare la precedente proposta, basata sui FloC, i Federated Leraning of Cohorts, perché giudicati troppo complessi e di difficile integrazione con le regole del GDPR della UE.
La opinioni in merito al nuovo progetto sono discordanti: da un lato, gli editori vedono potenziali vantaggi per le loro attività pubblicitarie. Il discorso di Google potrebbe infatti rendere i dati di prima parte degli editori molto più attraenti per gli inserzionisti, poiché ciò che viene proposto da Google non è più così granulare come le tecnologie del programmatic advertising sono abituate a gestire.
D’altra parte, non è errato chiedersi se Topics rappresenti davvero un miglioramento concreto dello scenario operativo. Dopotutto potrebbe essere solo un altro mezzo ideato da Google per ‘cancellare tutto affinché non cambi nulla’, mentre rimane centrale l’obiettivo dell’azienda: sfruttare la sua dimensione per far sì che i marketer non abbiano altra scelta che accettare le affermazioni di parte circa l’efficacia del loro investimento.
In altre parole, è un promemoria di quanto gli editori alla fine siano impotenti nel rispondete alle attività di Google: al massimo potranno navigare in scia. Infatti, per quanto frustrante possa essere per alcuni, molti publisher si rifiutano, per il momento almeno, di non accettare completamente l’aggiornamento della strategia di targeting. Preferiscono aspettare per vedere se Topics possa davvero garantire i vantaggi promessi. In tal caso, rafforzerebbero gli investimenti che stanno facendo nei propri ‘prodotti’ basati sui dati di prima parte, in particolare gli ID forniti dall’editore (PPID – Publisher-Provided ID).
Sebbene siano in circolazione da diversi anni, i PPID stanno vivendo ora un buon momento, grazie alla progressiva eliminazione del tracciamento granulare consentito dai cookie di terza parte. Facilitano infatti il targeting e la misurazione cookieless, ma solo attraverso i media di un editore specifico. Il motivo è semplice: gli editori in genere collegano un PPID a un utente connesso o a un cookie proprietario. Gli inserzionisti utilizzano quindi il PPID per raggiungere utenti sconosciuti, al massimo con una quota limite del tracciamento.
Per quanto utili siano questi identificatori, non sono tuttavia ampiamente disponibili. Normalmente, vengono usati dagli editori per stringere accordi diretti con gli inserzionisti. I PPID, tuttavia, non funzionano su tutti i tipi di programmatic, come le aste aperte, perché i publisher tendono a tenerli ‘confinati’ all’interno dei propri sistemi. Altrimenti, corrono il rischio che i dati ‘fuoriescano’ se vengono condivisi in modo più ampio. In altre parole: i PPID non sono scalabili in alternativa ai cookie di terze parti. E qui entra in gioco Google. Sapendo che gli editori più grandi cercheranno modi per condividere i PPID con più inserzionisti, in tutti i tipi di accordi programmatici, si offre di essere l’intermediario che rende possibile ciò.
“Stiamo parlando con Google di come sta costruendo integrazioni che ci consentano di condividere il nostro PPID con gli inserzionisti, ma al momento la soluzione è troppo vasta”, ha spiegato in un’intervista Sébastien Noël, Managing Director of Programmatic, Ad Tech and Monetization Activities del Gruppo Le Monde. “Vogliamo adattarne l’utilizzo a ogni soluzione Google”.
Questo è un modo indiretto per dire che è preoccupato di non avere il controllo su come Google utilizzerà il suo PPID. Noël ha aggiunto: “Se desideri utilizzare PPID all’interno di Google, devi accettare di utilizzarlo dovunque, all’interno di Ad Manager, Adx, DV360 e del resto del suo stack“, ha affermato Noël. “E questo non ci sta bene“. Una volta che i dati iniziano a fluire in altre parti di Google come la DSP o lo scambio di annunci, la preoccupazione è che diventi più difficile controllarli, specialmente a opera di un’azienda che guadagna la maggior parte dei suoi ricavi al di fuori delle aste aperte.
Tuttavia, ogni tentativo di riformulare un rapporto commerciale, compreso questo, deve iniziare da qualche parte. Le discussioni sono in corso, anche se non è stato ancora concordato nulla. “Vogliamo arrivare a un punto in cui trattiamo con acquirenti specifici all’interno dell’ecosistema di Google in modo da avere noi il controllo, non Google“, ha sottolineato Noël.
C’è stato un tempo in cui una richiesta del genere sarebbe sembrata inutile. Per anni, i rapporti tra publisher e Google sono stati ‘impervi’, per utilizzare una metafora. Se mai ci fosse un momento in cui Google potrebbe attenuare alcune di quelle tensioni sarebbe ora. Dopotutto, l’azienda ha molto da perdere a causa del ritiro dei cookie e degli identificatori mobili di terze parti, quindi la sua capacità di sostituirli con dati proprietari e creare un’unica ‘vista’ tra i diversi publisher (oscurata a tutti gli altri) è un enorme vantaggio per la sua precisione e e le sue prestazioni. Senza contare il valore delle economie di scala e delle sue potenzialità economiche.