Entertainment

Il seme del fico sacro: Mohammad Rasoulof racconta l’Iran di oggi

Seguendo i codici di comunicazione dei social, il film trova un suo linguaggio potente. Alle immagini orizzontali si aggiungono le immagini verticali, reali, sporche. Thriller dell’anima, operetta morale, film di denuncia e metafora sull’Iran di oggi

Alfred Hitchcock diceva che se in scena appare una pistola, vuol dire che prima o poi sparerà. E una pistola è presente in una delle primissime scene de Il seme del fico sacro, il film di Mohammad Rasoulof, regista iraniano in esilio, che è stato presentato oggi a Roma. Il film, in uscita sui nostri schermi il 20 febbraio, è in lizza per entrare nella cinquina dei migliori film in lingua straniera agli Oscar, in rappresentanza della Germania, ed ha vinto il Premio Speciale della Giuria al recente Festival di Cannes. Quella pistola è da subito in mano da Iman, il protagonista del film. L’uomo è diventato un giudice istruttore del Tribunale della Guardia Rivoluzionaria. È un ruolo molto importante, che gli permetterà un ottimo stipendio e darà alla sua famiglia la possibilità di andare a vivere in una casa nuova e più grande. È anche un lavoro molto pericoloso, che potrebbe metterlo a rischio. E da qui la pistola.

Disarmare il proprio padre

Quella pistola, all’inizio, sembra solo testimoniare una condizione. Ma, nella seconda parte del film, darà vita a un vero e proprio thriller. Un thriller senza un vero assassino. Il villain del film è il Sistema, è la paranoia, l’aria che viene a mancare a causa di un regime per cui ogni piccolo gesto di vita quotidiana diventa qualcosa di cui aver paura. “La giovane generazione, le figlie di Iman, grazie al modo in cui vivono capiscono che stano subendo una bugia” ci ha spiegato il regista. “Per anni non sapevano che ruolo stesse svolgendo il loro padre nel meccanismo di potere repressione e violenza dello Stato. Sono molto impressionate da ciò che viene alla loro amica Sadaf, ferita durante una manifestazione. E immaginano che il loro padre abbia avuto un ruolo molto più grande di quello che avevano sempre pensato. Quindi è il confronto con la realtà che scatena questa reazione. Non è tanto voler far qualcosa con la pistola, quanto voler disarmare il padre”.

Un lavoro che condiziona un’intera famiglia

Iman capisce che, facendo questo lavoro, dovrà venire a patti con la sua coscienza. Si tratta spesso di istruire i casi in pochi minuti, di firmare condanne a morte senza nemmeno aver potuto dare uno sguardo al caso. Lo richiedono i superiori. Iman sembra restio, ma il suo ruolo gli impone questo, e si adegua piuttosto in fretta. Ma questo suo ruolo condiziona la sua famiglia. La moglie è la cerniera che prova a tenere insieme lui e le figlie, spiriti più liberi che man mano si rendono conto. È lei a provare a frenarle. Ogni loro comportamento potrà essere studiato, giudicato: indossare l’hijab, usare i social, frequentare amiche più libere.

Le vere riprese delle rivolte attraverso gli smartphone

Intanto le persone vengono portate via a forza, picchiate, prese a fucilate. Sono tutte ragazze, tutte giovani. Spariscono e di loro non si sa più niente. Tutto questo viene documentato dagli smartphone della gente comune, tutto diventa virale e vola in tutto il Paese e in tutto il mondo attraverso i social media. Lo vedono anche le due figlie di Iman. Seguendo i codici di comunicazione di questi nuovi media, il film trova un suo linguaggio potente. Alle immagini orizzontali, pulite, costruite della storia di finzione, un kammerspiel tutto in interni, si aggiungono le immagini verticali, reali, sporche degli smartphone. Sono le vere riprese di quello che accade in Iran e danno al film una grande forza.

I citizen journalist iraniani

Le due modalità di ripresa, distanti tra loro, si fondono alla perfezione. Perché è attraverso i video degli smartphone che i personaggi apprendono la realtà. “Come tutti sapete il giornalismo in Iran è un mestiere difficile” spiega il regista. “Non è permesso ai giornalisti documentare le proteste: sono gli stessi manifestanti che le riprendono e diventano citizen journalist. Le condividono tra loro e le mandano anche all’estero, perché il mondo sappia che cosa accade in Iran. Ero in prigione da vari mesi, per i miei film precedenti, quando è partito il movimento Donna, Vita, Libertà. La prima cosa che ho fatto quando sono uscito è stato andare a vedere tutti i video che non avevo potuto vedere”. “Sapevo che avrei fatto un film clandestinamente e mi chiedevo come poter ricreare le scene di protesta” continua. “Mi pareva importante riconoscere l’importantissimo ruolo dei social nel rendere più forti e coesi attivisti e attiviste e dare logo coraggio e voglia di scendere in piazza. In un mondo ideale, potendo ricreare certe scene, potresti ricostruire la forza cruda della realtà? Così sono arrivato a questa scelta di usare immagini documentarie”.

Immersi nella situazione dell’Iran

Il seme del fico sacro è un film che immerge inesorabilmente nella opprimente situazione dell’Iran di oggi, un Paese dove la mancanza di libertà condiziona ogni minimo gesto quotidiano. È un film che vive di cortocircuiti. Quello, formale, dell’incontro tra immagine di finzione e immagine del reale, in cui una dà forza all’altra. E quello, ideale, tra le giovani generazioni e quelle più adulte, conservatrici e refrattarie, spaventate e indottrinate, integrate nel sistema. Che è anche il contrasto tra il ruolo di Iman e le aspirazioni libertarie delle proprie figlie.

Un finale metaforico

Negli ultimi 40 minuti il film cambia. E da reale diventa metaforico. Si abbandona Teheran e si viaggia nel deserto, tra santuari e città in rovina, labirinti mitologici. “Il finale nel santuario dove sono sepolti gli imam è un simbolo” spiega il regista. “Volevo far capire come in Iran siamo sempre sotto un potere religioso. Nelle scene nella loro casa, invece, per me, me era importante far mantenere il rapporto di imprigionamento della famiglia. E il ruolo delle telecamere e delle confessioni forzate”.

La prigione di Cecilia Sala

A proposito di prigionia, Rasoulof racconta di essere stato detenuto nella stessa prigione di Cecilia Sala. “Vorrei ringraziare Cecilia Sala per aver preso il rischio di andare in Iran come giornalista per documentare la condizione delle donne iraniane in questo periodo” dichiara. “Io ho passato due periodi nella stessa prigione. Posso immaginare che esperienza difficile sia stata per lei. Credo sia ancora più difficile per una persona europea: io sono nato in Iran e sono preparato a queste difficoltà con cui dobbiamo combattere tutti i giorni. Ho provato a riflettere su tutto ciò che avviene in prigione nelle condizioni della famiglia che appare nel film, nelle dinamiche familiari, ho portato l’esperienza della prigione a un pubblico più ampio. Rasoulof oggi è esule, come quasi tutti gli attori e chi ha collaborato al film. “Tra i miei collaboratori l’unica persona in Iran è Soheila Golestani, l’attrice che interpreta la madre, alcuni sono riusciti a lasciare il Paese. C’è un processo in corso verso tutti quelli che hanno preso parte al film. Alcuni di noi verranno giudicati in contumacia. Siamo accusati propaganda contro il regime, incitazione alla violenza e diffusione della prostituzione e della corruzione sulla Terra”.

Un uomo che non è più quello che era

Il seme del fico sacro è anche una storia shakespeariana su un uomo che era qualcuno ed è diventato qualcun altro. Il senso del titolo è questo. Il seme del fico sacro, portato dagli escrementi degli uccelli, cade su altri alberi e crea delle radici esterne su cui cresce la nuova pianta, che finisce per soffocare l’altra.

Maurizio Ermisino