È una serie che ci parla di tecnologia, di un futuro prossimo venturo non troppo lontano dai nostri giorni, ma per parlarci di come questa tecnologia ha mutato profondamente i nostri rapporti, il nostro stile di vita, il nostro modo di essere. È una serie che ci parla di noi, e di dove stiamo andando. La settima stagione della serie televisiva britannica, ideata e prodotta da Charlie Brooker per Endemol Shine Group, è disponibile su Netflix dal 10 aprile. Stavolta sono sei episodi: Gente comune, Bestia nera, Hotel Rêverie, Come un giocattolo, Eulogy e USS Callister: Into Infinity.
Il gioco di Black Mirror è orami scoperto, piuttosto evidente
La serie di Charlie Brooker mette in scena dei paradossi, delle ipotesi, delle storie fuori dalla realtà (abbiamo sempre detto che è in qualche modo l’erede della serie Ai confini della realtà), ma alla fine non così lontane da quello che già oggi è tra noi. Mostrandoci cosa possiamo diventare domani, in realtà Black Mirror ci fa già capire che cosa siamo diventati oggi. Lo specchio nero che dà il titolo è lo schermo scuro di smartphone, computer e tutti gli altri device. È in quello che ci specchiamo. E di fronte al Black Mirror vediamo noi stessi, il nostro lato più oscuro. Quello che vediamo in Black Mirror, a ogni stagione, non ci piace, perché ci fa male, ci fa ammettere le nostre debolezze, le nostre paure. Eppure ogni volta è un gioco a cui è impossibile sottrarci, perché è avvincente, intelligente, a tratti geniale. Un meccanismo perfetto. Dopo un paio di stagioni non all’altezza, infatti, Black Mirror è tornato ai vecchi fasti o quasi: tagliente, spietato, attuale.
Il bello di Black Mirror è che non spiega tutto
Non ci spiega mai come si è arrivati a concepire la tecnologia che è al centro della storia. Non si chiede se una tecnologia simile sia plausibile o meno. Non si chiede se, per assistere alle storie, serva una grande sospensione dell’incredulità. Ve lo diciamo noi: questa sospensione non serve. Perché quelle tecnologie non sono così lontane da quelle di oggi, anzi ci sembrano semplicemente la loro naturale evoluzione. Quello che si chiede Black Mirror è solo un What If: che cosa succederebbe se ci trovassimo ad aver a che fare con quel tool? Ecco qual è il punto. Black Mirror parla sì di tecnologia, ma in fondo parla di noi. Si chiede che cosa faremmo se avessimo a disposizione una scorciatoia nella vita, un’opportunità che ci possa cambiare l’esistenza, ma a un prezzo che non possiamo davvero immaginare. Che poi è la vecchia storia del Faust e del patto con il Diavolo. Che poi è anche la nostra attuale vita. Preoccupatissimi della nostra privacy e dei nostri dati li abbiamo già venduti da tempo, e continuiamo a farlo tre quattro volte al giorno ogni volta che scarichiamo una nuova app.
Che ne sarà di noi in futuro?
Fateci caso. Molte di queste storie finiscono con un licenziamento, con la perdita del lavoro, del proprio status, della propria posizione. Finiscono con una reputazione rovinata. E la reputazione è legata a internet, ai social, ai video che scorrono in rete. È un segno che l’online oggi ha sempre più ricadute sull’off line. Ma, visto che può predire il futuro, che cosa ci dice Black Mirror dei giorni che verranno? Che un domani potremo accedere alle funzioni del nostro cervello in streaming, ma pagando un abbonamento, proprio come per i servizi come Netflix (l’autoironia è una delle caratteristiche di questa serie). E che se siamo persone normali, con desideri normali, non va bene: la tecnologia, e insieme a lei il marketing, ci dicono che i nostri desideri non sono abbastanza. Che così come siamo viviamo in una modalità base, standard. E per sentirci all’altezza dobbiamo effettuare continui upgrade alle nostre vite. (Gente comune). Che non possiamo più sentirci al sicuro con quello che siamo e quello che crediamo di sapere, perché ci sarà sempre chi, al di là di qualche possibile tecnologia futuribile, ci sarà sempre chi ci dirà che la realtà è un’altra (Bestia nera). Che un domani, possa esistere un software di Realtà Virtuale in grado di ricreare completamente il set di un film, atmosfera e attori compresi, immergendoci dentro solo un attore, in grado di essere il protagonista (Hotel Reverie, consigliato a ogni cinefilo). Che i videogame potrebbero cominciare a giocare con noi invece che noi con loro (Come un giocattolo). Che un domani le tecnologie potrebbero costruire un memoriale immersivo, delle persone e per farlo potrebbero chiederci di ricordare meglio il nostro passato, anche immergendoci totalmente nella ricostruzione delle nostre vecchie fotografie (Eulogy). E che l’ossessione per serie e videogame potrebbe imprigionarci in un mondo virtuale dal quale sarà impossibile uscire (USS Callister: Into Infinity).
Black Mirror è anche Netflix che critica se stessa
O, almeno, gioca a farlo. Gioca a criticare le piattaforme e i loro abbonamenti sempre più esosi, sempre più Plus e più Gold. Gioca a criticare le piattaforme e le case di produzione che giocano con le loro legacy, con le loro library. La continua sfrenata ricerca a riprodurre all’infinito le loro proprietà (vero, Disney?) e, in generale, l’industria dell’intrattenimento di oggi. Si ironizza anche sull’automazione dei contenuti e sull’AI che può ormai riprodurre fedelmente qualsiasi tipo di film, come ci racconta la reel di Jacopo Reale.
Eulogy è l’episodio più intrigante
La storia su una tecnologia che possa aiutarci a ricordare facendoci entrare dentro le vecchie foto è proprio un segno dei nostri tempi, quelli dell’attenzione e dell’ossessione per le immagini. Non a caso uno dei social più popolari, oggi, è proprio legato alle foto. Ma quell’idea dell’immersione è anche un ennesimo paradosso, figlio dell’attenzione per la Realtà Virtuale ed il Metaverso. Meditate, gente, meditate. Perché vi sembrerà di guardare un racconto proiettato nel futuro. Ma dentro c’è semplicemente tutto quello che state già facendo oggi.
di Maurizio Ermisino