Il search sta vivendo – e subendo, in effetti – una serie di cambiamenti profondi, capaci di rivoluzionare uno scenario che sembrava consolidato sul predominio inscalfibile di Google e del suo gigantesco sistema di scambio: tu mi dai i tuoi dati e io li rivendo al mercato. In cambio tu puoi usare gratuitamente i miei servizi: email, Maps, repository di foto, cloud e tutta la serie quasi infinita tra cui scegliere. Incluso Gemini, ovviamente: non è neppure ipotizzabile che potesse non essere disponibile l’AI e il relativo chatbot.
I passi da gigante compiuti dall’AI
Ma qui è avvenuto il primo sconquasso, prevedibile forse ma epocale nei sui risultati. Nell’AI si partiva tutti da zero, dal famoso ‘level plain field’, anzi erano disponibili altre AI, da ChatGPT di OpenAI a Copilot, da Deepseek a Perplexity, che tentavano a sfidare direttamente il monopolio di facto di Google. I concorrenti si sono affollati proponendo ciascuno risultati migliori e ricerche più efficienti, e le più giovani generazioni si sono abituate rapidamente a trovare le loro risposte altrove. Fino a quando, con uno sforzo e un investimento titanici, Google ha risposto con Overviews, un’AI che, prima di elencare i consueti link, dà una risposta generativa al quesito posto.
Sostanzialmente Big G abbina i due punti di forza del search: ma sarà sufficiente per recuperare il terreno già perso? Già in passato erano diffusi i post di insoddisfazione degli utenti che segnalavano la presenza sempre più invasiva di contenuti sponsorizzati nelle risposte di Google, ma in mancanza di alternative di massa – chi utilizzava davvero DuckDuck Go tranne qualche nerd attento alla privacy? – queste lamentele rimanevano per lo più fini a se stesse. Ma ora l’alternativa c’è, ed è utilizzata da un numero crescente di utenti.
Non solo, la stessa implementazione di AI Overviews cambia le carte in tavola: essendo basato sull’intelligenza artificiale generativa, fornisce risposte dirette alle query degli utenti, senza più passare dai classici risultati della SERP. Per nove utenti di Google su dieci questa risposta è più che sufficiente. Di conseguenza meno click, meno traffico ai siti, meno visibilità per chi continua a ragionare secondo le obsolete logiche SEO. Infatti ora siamo di fronte a uno scenario differente: non più l’ottimizzazione della search, bensì il nuovo ‘Search Ecosystem Optimization’, con le informazioni che si trovano ovunque: dentro un video, su un post LinkedIn, nei suggerimenti di un’AI. Overviews arriva buon ultimo, con tutti il peso della heritage di Google, e potrà o meno ristabilire la predominanza dell’azienda nel search, ma il quadro complessivo è già cambiato. Approfondiremo in altra sede che cosa questo significhi, nel bene e nel male, per quei siti che hanno vissuto a lungo all’incrocio tra verticalità e coda lunga.
La decisione della UE e le sue conseguenze
Passiamo ora a guardare che cosa accade a livello di Commissione Europea, con la condanna di Meta per aver adottato il modello di ‘Pay or consent’ senza prevedere un terza alternativa. La condanna per ora è limitata a Meta, ma le conseguenze riguardano tutte le aziende che adottano questa modello di scambio tra dati degli utenti e servizi prestati, da Google in giù.
“Per quanto riguarda i modelli di ‘consenso o pagamento’ attuati dalle grandi piattaforme online”, scrive infatti l’EDPB (European Data Protection Board) il 17 aprile in risposta a una richiesta delle data Authority norvegese, neerlandese e tedesca, “si ritiene che, nella maggior parte dei casi, non sarà possibile rispettare i requisiti per un consenso valido, se mettono gli utenti di fronte solo alla scelta tra il consenso al trattamento dei dati personali per scopi di pubblicità comportamentale e il pagamento di una tariffa”.
“L’EDPB ritiene che l’offerta di un’alternativa a pagamento ai servizi che comportano il trattamento dei dati personali a fini di pubblicità comportamentale non debba essere la soluzione predefinita per i responsabili del trattamento”, ha proseguito. “Le grandi piattaforme online dovrebbero prendere in considerazione la possibilità di fornire alle persone un’alternativa equivalente che non comporti il pagamento di una tariffa. Questa alternativa gratuita dovrebbe essere priva di pubblicità comportamentale, ad esempio con una forma di pubblicità che comporti il trattamento di una quantità minore o nulla di dati personali. Questo è un fattore particolarmente importante nella valutazione del consenso valido ai sensi del GDPR”.
Il problema qui è proprio il modello di business di queste imprese digitali (spoiler: quasi tutte): non si può ‘disinventare’ la ruota, e il non-addressable advertising ha un valore economico dieci o venti volte inferiore a quello addressable, come ricorda anche in suo podcast delle serie ‘Ciao Internet’ Matteo Flora, imprenditore e docente. Convincere gli investitori a pagare di più un media che è stato ‘svalutato’ dal progresso tecnologico sarà impresa davvero ardua, così come convincere gli utenti a cedere i propri dati se non sarà più possibile metterli di fronte la ‘ricatto’ accosenti-o-paga. In sintesi un compito non facile, quello di stilare le linee guida efficaci per chi vorrà rispettare tutte le prescrizioni del GDPR e del DSA/DMA allo scopo di fornire alle persone un’alternativa equivalente a quella del ‘pay or consent’, che non comporti il pagamento di una tariffa. Buona fortuna legiferatori, ne avrete bisogno. A meno di voler far morire un comparto che sviluppa circa 100 miliardi in Europa, con una crescita di più dell’11%, superiore a quella degli USA.
L’Italia apre un nuovo fronte: sui dati ceduti si paga l’IVA!
Più limitata territorialmente, si parla dell’Italia, ma dalle conseguenze potenzialmente enormi, la terza minaccia che incombe sui gatekeeper e sulle imprese digitali.
A gennaio 2025 l’Agenzia della entrate ha notificato a Meta e a X l’avvio di una contestazione perché i dati degli utenti avrebbero un valore contabile tangibile, e sarebbero perciò soggetti a IVA. In seguito, in Procura si è pertanto aperto un fascicolo, con rinvio a giudizio , di indagine per ‘dichiarazione infedele dei redditi’ a carico dei manager delle due società, anche se gli importi sono molto diversi: 877 milioni per Meta e ‘solo’ 12 milioni per X. Ovviamente, in caso di soccombenza in giudizio le due società interporranno appello, ma il punto in esame è suscettibile di enormi sviluppi. Innanzitutto l’indagine e l’eventuale condanna potrebbero essere estese a tutti gli operatori del comparto, di nuovo da Google in giù. E inoltre l’IVA è un ‘imposta ‘europea’, che ogni anno ammonta oltre 1.000 miliardi di euro, pari a circa il 7% del PIL dell’UE e oltre 15% del gettito fiscale totale. Quindi il procedimento italiano, ove venisse accolto, potrebbe essere l’apripista di un’azione a carico di tutte le aziende che operano nell’Unione.
Riassumendo
Progressi dell’AI verso l’ignoto, proibizione della formula ‘pay or consent’ e imposizione dell’IVA sul valore dei dati ‘scambiati’ dagli utenti. Qualcosa in grado di preoccupare davvero anche le aziende digitali più grandi del mondo.
Non resta che attendere i prossimi passi, step by step…
di Massimo Bolchi