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Uonderbois arriva su Disney+. Barbara Petronio: “Dopo questa esperienza ho aperto la mia società di produzione, la Bullet Point”

di Maurizio Ermisino

Si chiama proprio così, Uonderbois, la nuova serie creata da Barbara Petronio e Gabriele Galli per la regia di Andrea De Sica e Giorgio Romano, che arriva il 6 dicembre su Disney+.

Si scrive con la “U”, come ci spiega subito uno dei ragazzini, che sta disegnando un mitico supereroe di cui si parla, ma che nessuno ha mai visto davvero. Lo scrive con la “U” perché tanto è così che si pronuncia. Prodotta da Raffaella e Andrea Leone per Lotus Production, Uonderbois è una serie in 6 episodi a cui fanno da cornice le leggende popolari di un posto unico al mondo: Napoli. I Uonderbois sono cinque ragazzi di dodici anni, accomunati dalla fervida fantasia di chi è nato e cresciuto tra le strade di Napoli, e dalla convinzione che in città si aggiri Uonderboi, il loro mito, un incrocio tra la leggendaria figura del Munaciello e un moderno Robin Hood. Uonderbois è una di quelle storie che ci piace. È una versione tutta italiana, anzi tutta napoletana, di quei film d’avventura per ragazzi che si facevano negli anni Ottanta. Quelle de I Goonies, di E.T., di Stand By Me, dei cari film della Amblin di Steven Spielberg. Queste serie d’avventura, vedi Stranger Things, sono quelle che oggi vanno per la maggiore. Ne abbiamo parlato con Barbara Petronio, una delle prime Showrunner italiane, sceneggiatrice, scrittrice e produttrice esecutiva. “Non abbiamo fatto ragionamenti, inizialmente, sul target e l’andamento del mercato” ci racconta Barbara Petronio. “Ci siamo mossi su quelli che erano i nostri desideri, rifare quei film che vedevamo da piccoli, Spielberg, I Goonies, Indiana Jones. Crescendo e diventando autori abbiamo voluto fare un omaggio alla nostra formazione da bambini e adolescenti, piccoli cinefili. Quando vai su un territorio del genere, il target è definito. La nostra idea è rifarci a quel cinema lì, che andavamo a vedere con i nostri genitori, e loro come si divertivano. Non erano prodotti solo per adolescenti, ma prodotti per un pubblico più largo. La motivazione che abbiamo avuto noi, quando abbiamo fatto questa gita a Napoli nel 2016, è stata cercare di unire il sogno del cinema americano con un territorio sognante come quello di Napoli”.

Perché Napoli

“Si tratta di una storia di amicizia tra ragazzini. Anche l’origine dell’idea di Uonderboi parte da una storia di amicizia: io, Gabriele Galli, l’altro creatore, e Giorgio Romano, uno dei registi insieme ad Andrea De Sica, ci conosciamo per motivi personali. E Giorgio è di Napoli. Nel 2016 ci disse: venite a fare a casa mia, vi faccio vedere posti incredibili che non sono mai entrati in un film. Ci ha portato nella Napoli sotterranea, nei siti archeologici che si trovano in centro, in posti molto particolari. In due giorni abbiamo fatto un giro nella città, che si è conclusa con una cena in un ristorante a conduzione familiare. Tornati a Roma ci siamo detti: perché non buttiamo già un’idea? Allora non sapevamo se sarebbe diventata un film o una serie. Volevamo raccontare questi giorni, legandoci alle leggende che Giorgio e il papà ci avevano raccontato. Abbiamo inserito il Munaciello, e quello stato sociale che si vive a Napoli nei vicoli, dove sono ancora forti i legami di amicizia”.

C’è tanta CGI

“In un racconto come quello che abbiamo fatto noi è stata mostrata pochissimo, se non mai. Non credo sia mai accaduto che faccia parte integrante di una storia. Quando la abbiamo vista non avevamo ancora una certezza che il film si sarebbe fatto, partivamo con la penna libera, ‘scrivo quello che voglio’ perché avevamo quell’energia creativa. Quando siamo arrivati ad avere un partner e un finanziatore come Disney il sogno diventava realtà. Abbiamo capito dove potevamo girare: non tutti gli ambienti sono adatti alle riprese cinematografiche siamo andati molte volte a vedere come potevamo fare. Avevamo cinque bambini in scena, con tutti i limiti che comportava. Abbiamo fatto uno scouting di due mesi su tutta Napoli C’è un episodio, un omaggio a Una notte al Museo, tutto nel Museo Archeologico di Napoli. Abbiamo girato al Teatro Flavio di Pozzuoli. Sono Beni del Ministero della Cultura, dove siamo andati a girare con tutte le cautele del caso. Quando li vedi sullo schermo non è come avere una scenografia finta. Poi vi sfido a capire quali sono le parti che abbiamo ricostruito in teatro, perché in alcuni casi abbiamo dovuto farlo. Con un lavoro incredibile dello scenografo Maurizio Leonardi, che ha fatto collegamenti tra le vere location e le parti ricostruite. Anche la CGI è utilizzata molto: è una delle serie dove questo uso è più presente. Abbiamo costruito un coccodrillo in computer grafica, e alcuni ambienti alla Indiana Jones”.

Barbara Petronio

Napoli è riconoscibile, ma è resa anche favolosa. Come avete lavorato in questo senso?

“Abbiamo fatto un lavoro partendo dalla carta, rivisitando le leggende con una lettura nostra, più personale. È un lavoro che poi è esploso con la regia, le scelte di trucco e casting che hanno fatto i registi con una fotografia che restituisse quell’atmosfera da favola nera, da realismo magico che cercavamo. Abbiamo voluto raccontare una Napoli magica, esoterica, misteriosa, che potesse affascinare il pubblico”.

La serie ha uno stile da graphic novel: i colori, i tratti marcati dei volti di alcuni personaggi, i disegni che fa uno dei ragazzi all’inizio. Avete cercato questo stile?

“Sì. Io sono una grande lettrice di graphic novel, forse inconsapevolmente cerco questo stile. In qualche modo c’è stata una ricerca negli attori: anche nei ruoli secondari abbiamo cercato dei volti, delle fisicità, un modo di esprimerci che ci riportasse in questo livello da comic, nel senso più bello del termine. Un fumetto che appassiona grandi e piccini, anche perché è caricaturale e portato all’estremo: questo è un tratto che abbiamo cercato negli attori, nel look, nella fotografia. Abbiamo cercato di dare un tono omogeneo su ogni livello di racconto. Ad esempio, ci sono molti stunt e ci hanno aiutato molto nel rendere Tonino Uonderboi un supereroe, ma in maniera partenopea. I suoi salti non sono quelli di Spider-Man né quelli del cinema hollywoodiano, ma hanno un tratto particolare. Il team degli stunt ha fatto un lavoro narrativo sul loro mestiere. Hanno aiutato gli attori a dare questa visione del personaggio, soprattutto con il protagonista, Massimiliano Caiazzo. Così siamo riusciti a non essere troppo simile agli americani, ma ad essere riconoscibili”.

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Sì, in questo modo le nostre cose hanno un look particolare, hanno un loro dna che, se arriva, è quello giusto, che puoi raccontare solo da Napoli per il mondo.

Come è avvenuto il matrimonio con Disney+? Come si sceglie a che piattaforma proporre il proprio pitch?

Facciamo il weekend a Napoli otto anni fa, quando Napoli non era la location che tutti utilizzavano. Scriviamo questa storia, che dal 2016 al 2019, è vissuta in forma di soggetto, era più un film probabilmente. Io porto con me, come altri progetti, anche questa storia. Ma nel frattempo entro come capo dei contenuti in Lotus: allora c’erano Marco Belardi e Raffaella Leone: nel contratto fanno un’opzione con questa storia. Arriva il 2019: per portare un prodotto al pubblico ci vuole molto tempo. Allora il capo di Disney International mi vuole incontrare perché aveva visto dei miei prodotti. Gli piaceva Suburra. Mi spiega che tipo di progetti possono interessare, e gli propongo questo. A Napoli non aveva mai messo piede e si invaghisce della storia. Capisce che era una forma da film, e mi consiglia di renderla più seriale. Abbiamo cominciato a svilupparlo, attraverso telefonate Roma – Los Angeles alle sei di sera, ora italiana. Alla fine è nato il prodotto che avevo sempre sognato.

Non la chiamano ancora showrunner, ma è executive producer. Per una donna raggiungere un obiettivo simile è stato più difficile?

In Italia essere showrunner è difficile anche come uomo. Il concetto di showrunner che sia anche scrittore, il modello industriale americano in cui chi scrive ha un peso oltre la carta, in Italia è qualcosa che si fatica molto a far passare. Ma qui ho proposto io i registi, ho partecipato al cast tecnico, sono stata 4 mesi sul set e poi in postproduzione. Sono stata uno showrunner vero e proprio. Da scrittore non credo ci sia un altro esempio così presente in queste fasi. Dopo questa esperienza, estremamente formativa, ho deciso di proseguire nel ruolo di produttore e ho aperto una mia società di produzione, la Bullet Point, con la quale comincio a fare sviluppi, a costruire tassello per tassello le idee che ho in testa, da scrittrice la cosa che mi interessa di più è avere una voce nei prodotti che creo. Credo che in questo modo abbiano un’identità maggiore, e maggiore omogeneità e compattezza.