di Maurizio Ermisino
“Siamo in un film” esclama Rebecca a un certo punto di Timor – Finché c’è morte c’è speranza, opera prima di Valerio Di Lorenzo, al cinema dal 7 novembre. “Dobbiamo capire che tipi siamo. Siamo un Dexter Morgan o un Norman Bates?”. Timor – Finché c’è morte c’è speranza è prodotto da Blooming Flowers e Sarabi Productions e distribuito da Blooming Flowers. Il film è stato presentato in anteprima in occasione di ROMICS 2024, il Festival Internazionale del Fumetto, Animazione, Cinema e Games, e ieri a Roma, al cinema The Space Moderno di Piazza della Repubblica, in una proiezione dedicata agli influencer. Dopo vari corti, tra cui Quid, selezionato per la candidatura ai David di Donatello nel 2021, Valerio Di Lorenzo firma la sua opera prima, di cui è anche sceneggiatore in collaborazione con Andrea D’Andrea. Dietro a loro ci sono due case di produzione. Blooming Flowers è una giovane cdp indipendente con sede a Roma, nata nel 2022: rappresenta nel nome la volontà di curare e far sbocciare progetti interessanti e originali del nostro panorama cinematografico. Sarabi Productions è una società di produzione mediatica a servizio completo con sede a Roma, Italia: crea, sviluppa e produce cortometraggi e lungometraggi, documentari, serie TV e web, video musicali, branded content e spot pubblicitari.
Ma di cosa parla Timor – Finché c’è morte c’è speranza?
Al centro della vicenda c’è lo sgangherato tentativo di una comitiva di quasi-trentenni di occultare il corpo di un uomo ucciso per sbaglio da uno di loro. Il cadavere diventa la metafora della loro spensieratezza e protratta adolescenza, che sta sfumando per lasciare posto ad una stagione della vita auspicabilmente più matura e responsabile. Tra i protagonisti ci sono Rocco Marazzita (già nella serie tv Dostoevskij dei Fratelli D’Innocenzo e nell’horror Sound of Silence, qui nel ruolo di Calamaro), Giorgio Montaldo (Jason) e Francesca Olia (Rebecca). Nel cast – per la prima volta al cinema – c’è anche la cestista, modella e influencer Valentina Vignali, nei panni della spacciatrice Involtina. E, in una piccola parte Daphne Scoccia (Pollice), l’indimenticabile protagonista di Fiore di Claudio Giovannesi.
Un film di genere
E si tratta anche di un genere piuttosto chiaro. È un certo tipo di dark comedy all’anglosassone, sul modello di Piccoli omicidi tra amici di Danny Boyle o dei primi film di Guy Ritchie. È puro cinema indipendente, a basso budget, non solo per come è realizzato, ma anche perché si rifà a quello stile ben preciso. Se non ci fossero gli attori italiani, potrebbe essere un film girato in Inghilterra o America negli anni Novanta. In quegli anni venivano prodotti, e arrivavano anche sul nostro mercato, una serie di film di questo tipo: low budget, ricchi di dialoghi fitti, girati spesso in un unico posto, o quasi. Erano le commedie nere di Boyle e Ritchie, ma anche commedie tout court come Clerks, Go Fish, Amore e altre catastrofi. In Italia li vedevamo quei film, ma non li abbiamo mai fatti. Anzi, a un certo punto sì. È arrivato Marco Ponti con Santa Maradona, ma è un autore che ha sempre giocato in un altro campionato. Valerio Di Lorenzo ora prova a fare un film di quel tipo. Un film che ha un suo senso, proprio nel suo essere fuori dalle mode e dal tempo. E anche dallo spazio: a parte la parlata, per il loro look i personaggi sembrano usciti da un film americano.
Valerio Di Lorenzo: “Nel film c’è l’ansia dei miei 30 anni”
Il regista Valerio Di Lorenzo, nelle note di regia, racconta come è nato il film. “Quando ho iniziato a scrivere Timor non sapevo cosa sarebbe accaduto nella storia, avevo dei sentimenti da voler sfogare e mi divertivo a immaginare queste situazioni assurde fatte di personaggi assurdi. Quando finii la prima stesura feci leggere il testo ad Andrea D’Andrea, un amico che reputo uno sceneggiatore eccezionale. Se ne innamorò ed entrò nel progetto come collaboratore. Analizzandola, capimmo che stavo parlando della mia ansia dei 30 anni, del mio sentirmi incompleto e ingabbiato, proprio come Calamaro, il protagonista del film”.
Opera prima
E, come tale, ha i pregi e i difetti di molti esordi. Da un lato l’energia, la temerarietà, la freschezza. Dall’altro qualche inevitabile incertezza in sceneggiatura e in qualche momento di recitazione. Ha anche molte buone idee. Su tutte l’ellissi narrativa che risolve il problema principale del cadavere, che avviene mentre alcuni personaggi mangiano una pizza. O una interessante soluzione di sceneggiatura e montaggio che fa sì che una frase di una sequenza successiva cada ancora nella sequenza precedente. Così come è interessante la fascinazione che Rebecca prova prima per Freud, creduto l’assassino, e poi per Jason, una sorta di fascinazione per il male, che qui è vissuta in chiave ironica, ma che spesso, nelle vite delle persone, è presente. Alla fine, torniamo alla frase di Rebecca. “Siamo in un film”. È questo il senso di tutto: i personaggi non sentono su di sé il peso della morte, la sua tragicità. Sono personaggi reali e allo stesso tempo astratti. È quasi come se fossero consapevoli di essere in un film, una messinscena, un gioco. Ed è proprio un gioco questo Timor- Finché c’è morte c’è speranza. Ed è così che va visto, abbandonandosi al racconto e al divertimento.