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Sopravvissuti, il film di Guillaume Renusson, con Denis Ménochet e Zar Amir Ebrahimi, arriva nelle sale il 21 marzo. Le migrazioni diventano un thriller e un western contemporaneo. Con il patrocinio di Amnesty International e la collaborazione di Emergency e Open Arms

di Maurizio Ermisino

“Perché mi stai aiutando?” “Perché hai bisogno di aiuto”. È il dialogo tra un uomo e una donna, Samuel e Chehreh, che racchiude tutto il senso di Sopravvissuti, il film di Guillaume Renusson, con Denis Ménochet e Zar Amir Ebrahimi, che arriva nelle sale il 21 marzo distribuito da No.Mad Entertainment con il patrocinio di Amnesty International e in collaborazione con Emergency. È una storia di solidarietà fuori dal comune, una storia in cui il tema delle migrazioni e dei confini è raccontato come un thriller o un western contemporaneo. “Mi sono ispirato a Il grande silenzio, un western di Sergio Corbucci, uno dei miei registi western preferiti” ha spiegato il regista ieri a Roma, al Centre Francais, dove il film è stato presentato. “E a delle storie di queste milizie private, persone che pensano che sia meglio fare giustizia da soli”.

Miglior film internazionale al Riff Awards – Rome Indipendent Film Festival, e Miglior interpretazione maschile a Denis Ménochet al Festival di Valdarno, Sopravvissuti è una storia molto particolare. Dopo un grave incidente stradale nel quale ha perso la vita sua moglie, Samuel, in piena riabilitazione mentale e fisica, sente il bisogno di stare da solo e decide di ritornare nel suo chalet nel cuore delle Alpi italiane. Una notte, una giovane donna si introduce nel suo chalet per rifugiarsi dalla tormenta di neve. È straniera e vuole raggiungere la Francia attraversando la montagna. Samuel non vuole mettersi nei guai, ma davanti a questa situazione di estremo pericolo, decide di aiutarla. Non immagina che al di là dell’ostilità della natura, dovrà affrontare la cattiveria dell’Uomo…

“Ho visto un film con un tema importante, ma anche un film molto fruibile, è un thriller, un western moderno” lo introduce Lydia Genchi, responsabile delle acquisizioni di No.Mad Entertainment. “Il film esce il 21 marzo in 40 copie, sia in versione originale con i sottotitoli, che è la tendenza futura per un certo tipo di film, che doppiata”. Nel cast brilla DenisMénochet, l’attore di As Bestas che avevamo visto anche in una famosa scena del film Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, dove era Monsieur Lapadite. “Volevo Denis Ménochet, che è un grande attore” ci racconta il regista. “L’ho incontrato a Londra. E poi abbiamo fatto un casting. E abbiamo trovato Zar Amiri: volevamo una faccia nuova, non un volto conosciuto. Appena l’abbiamo vista ho pensato che fosse lei Chehreh”. Zar Amiri, tra l’altro, ha una storia simile al personaggio, legata alle chiavi che vediamo alla fine del film. “Ci ha detto che non erano le chiavi fornite dagli scenografi, ma erano le sue chiavi, quelle della sua casa di Teheran” ci svela il regista. È stato emozionante: in quel momento non era più Chehreh, ma Zar Amir. La sua storia era nel film”.

Guardando il film si stenta a credere che ci siano degli uomini e delle donne che agiscano da soli, come milizie private, in una vera e propria caccia all’uomo, a chi attraversa i confini. Tra loro c’è un attore italiano, Luca Terracciano. “Quando sei sul confine ci sono italiani che parlano francese e viceversa, e volevo anche un personaggio italiano” spiega Renusson. “Non volevo uomini grandi come rocce, ma attori che sembrassero persone qualunque. Sono quelle che puoi trovare in questi luoghi”. Dove c’è molta tensione, odio e ci sono persone di questo tipo. “La prima volta che sono andato sulle Alpi per i sopralluoghi alle location mi sono ritrovato ad avere una discussione con uno delle istituzioni locali di estrema destra” ricorda il regista. Mi ha detto: spero che direte la verità rispetto a questi negri che camminano sulla montagna”. “Alla frontiera con la Polonia ci sono bande di persone che fanno la caccia ai migranti. A Parigi il giorno prima dell’uscita del film una persona è entrata in un salone da parrucchiere curdo con un coltello per uccidere delle persone. Ho tanti di questi aneddoti. Questo non è un documentario, è un film di finzione, e la domanda che mi faccio è: fino a dove può arrivare la violenza? Tra Samuel e queste persone, anche se si conoscono, non è possibile il dialogo. E mi chiedo cosa si possa fare in una democrazia quando non c’è più dialogo. È la violenza, è il fascismo. In un luogo a 3mila metri di altitudine senza controllo, senza telecamere, senza polizia la violenza può esplodere. Ho paura di questo mondo perché può arrivare in qualsiasi momento in qualunque posto. Forse siamo già in questo mondo”.

Di Samuel sappiamo poco, solo qualche parola su un’incidente, e sulla morte della moglie.  “So da dove viene Samuel, conosco la sua storia” ci spiega Renusson. “Ho voluto evitare di raccontarla, avrei dovuto raccontare il suo passato e sarebbe stato un altro film. Non volevo dare una spiegazione sociale al fatto che questo uomo aiutasse una giovane donna afghana. Non volevo che avesse una connotazione politica, né che si parlasse di problemi sociali. Volevo che ci si potesse identificare in lui nel modo più universale possibile. Volevo che il fatto di aver perso sua moglie fosse il punto di partenza. Ho parlato con altri scrittori ed erano d’accordo su questa cosa: quando si aiuta gli altri, si aiuta se stessi”. “C’è un avvicinamento che ha con questa donna, perché somiglia alla moglie, si mette il suo stesso cappotto” continua. “Non volevo che ci fosse una dimensione politica ma umana: due persone che hanno un dolore e lo superano insieme, aiutandosi. Una spettatrice è venuta a parlarmi dopo il film e mi ha detto: i migranti non mi interessano, non li sopporto, e penso di essere razzista; ma ho perso mio marito e ho capito il vostro film”.

Spesso pensiamo a un western come a un film ambientato nel deserto. Ma possono esserlo anche dei posti di questo tipo. “La regione dove abbiamo girato sta diventando un deserto dove molte cose moriranno” spiega il regista. “Tra Modane e Bardonecchia ho visto molte città con alberghi abbandonati, piccole stazioni sciistiche chiuse perché grosse società avevano preso il potere. C’erano palazzi in costruzione dove mancava l’ultimo piano. La stazione sciistica dove abbiamo girato, e l’albergo, sono davvero abbandonati. Abbiamo voluto raccontare i cambiamenti climatici e i cambiamenti sociali. La scena dell’albergo nello script non c’era, ma quando siamo arrivati lì mi è piaciuta l’idea e l’ho messa nel film. È vero che i western sono film di grandi aperture, grande speranza, ma c’è anche uno sguardo su queste situazioni di decadenza. Situazioni che possono suscitare la solidarietà o l’odio”.

“Ci siamo agganciati subito a questo racconto di incontro e solidarietà, se non altro per un approccio che ha il protagonista, ed esprime benissimo in un dialogo: Perché mi stai aiutando? Perché hai bisogno di aiuto” interviene Michela Greco di Emergency. “È la risposta che avrebbe potuto dare il fondatore di Emergency, Gino Strada. Siamo in Afghanistan da anni, e sono successe molte cose. Abbiamo 3 ospedali, un centro di maternità, 40 punti di primo soccorso. Per noi è interessante parlare di quello che succede lì. Ufficialmente non c’è più una guerra, ma di fatto c’è ancora. Il nostro lavoro è cambiato, siamo passati da una medicina di guerra a una più traumatologica. Le persone si ammalano anche di cose banali, perché c’è una situazione molto dura”. “Medicina, diritti e uguaglianza è la nostra tagline”, continua, con riferimento a una scena in cui vengono richiesti i documenti. “I documenti sono simbolo di diseguaglianza, sono strumenti di potere. Un passaporto italiano dà diritto di accesso a molti paesi, quello afghano è quasi all’opposto. Lo scorso anno abbiamo fatto un report sull’accesso alle cure in Afghanistan, che è diventato una graphic novel”.

“Ci sono tante ragioni legate ai diritti umani per cui patrocinare questo film” spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International. “Lungo le frontiere di tutti gli stati interni, e fuori dai confini dell’Unione Europea, ci sono molte guardie di frontiera, agenzie come Frontex, milizie private e gruppi paramilitari, quasi tutti anche con i cani. Le frontiere sono piene di milizie che le controllano”. “Il film parla della frontiera italo-francese” continua. “Noi conosciamo il meccanismo di rimbalzo della frontiera a valle, quella di Ventimiglia, meno quella di montagna. Questo film ci dice che dall’Afghanistan si continua a fuggire, spesso per un’apartheid di genere; ci parla di odio, di razzismo e di solidarietà. È un film che parla profondamente di diritti”.