di Maurizio Ermisino
Otello non è un eroe romantico. Non è una vittima. Basta raffigurare il personaggio shakespeariano con le lacrime. Otello ha ammazzato la sua compagna, Desdemona. Otello è un femminicida. È questo il messaggio, deciso e potente, che arriva da Non sono quello che sono, sorprendente film di Edoardo Leo che, dopo il passaggio della scorsa estate al Festival di Locarno, è stato presentato a Roma, al cinema Barberini, venerdì scorso, ed è in uscita al cinema il 14 novembre. Con Non sono quello che sono Edoardo Leo prende l’Otello di William Shakespeare e dimostra che, da un lato, un testo scritto nel Seicento può essere ancora attuale. Dall’altro, che i capolavori non sono testi scritti nella pietra, ma che possono essere reinventati, riletti, riadattati secondo lo zeitgeist, secondo il senso dei tempi che stiamo vivendo. E quel testo ci dice che gli uomini uccidevano le donne per quello che chiamavano amore, e che lo fanno ancora.
“Ho cominciato a scrivere questo film prima di fare il mio esordio alla regia e ho immaginato che potesse esserlo” ci ha raccontato Edoardo Leo. “Non l’ho nemmeno proposto: per un autore sconosciuto sarebbe stato un azzardo enorme. In tutto questo tempo ho continuato a lavorare su questo grande classico. Un giorno ho letto un articolo di giornale su un uomo che aveva uccio la moglie e se stesso. È la sinossi di Otello”.
“Una cosa scritta nel 1604 ci racconta in modo così preciso le dinamiche psicologiche che portano un uomo a uccidere la moglie” continua. “Ho letto quasi tutte le traduzioni e ho lavorato a una traduzione in dialetto, scoprendo come mantenesse intatta la dinamica di certe situazioni. Rafforzandolo e non indebolendolo, e rendendo attuale questa storia. Fortunatamente non ho fatto il film allora, perché non avevo la maturità necessaria.
“Ora c’era l’urgenza da parte di tutti per raccontare questa cosa che è tragicamente contemporanea. È un classico che racchiude tutti i fatti di cronaca visti non solo in questi giorni, ma in tutti questi secoli”. Non sono quello che sono è prodotto da Vision Distribution, Groenlandia e Italian International Film, in collaborazione con Sky.
Svuotare Otello dell’aura romantica
Edoardo Leo prende il testo del Bardo, che negli anni è stato tradotto in centinaia di modi, e lo traduce in romano, mantenendone l’originalità ma portandolo a terra, nella strada. Non siamo proprio ai giorni nostri, ma una ventina di anni fa, lo capirete, nel 2001. “Il dialetto fa sprofondare nella carne, nella strada le parole di Shakespeare e ne mantiene lo stesso la poesia” spiega il regista. “Ci sono traduzioni di Otello che lo portano in una direzione o nell’altra. Ho cercato tradurre il testo svuotando il protagonista dell’aura romantica che si è portato avanti nel tempo. Oggi non è più il tempo che abbia quest’aura. Volevo togliere la pietas che si è sempre avuta verso Otello. i classici non sono scritti nella pietra”.
Lavorare negli spazi tra le parole
Il film di Edoardo Leo è un’opera di attualizzazione, ma anche di contaminazione, perché quel testo si mescola ai linguaggi di oggi, quelli dei film e delle serie. È Otello che incontra Suburra, la tragedia shakespeariana che va verso i “romanzi criminali” di oggi. Al posto dell’esercito c’è un’organizzazione di stampo mafioso. Otello è un ragazzo nordafricano, che i criminali romani chiamano semplicemente “er negro” (Jawad Moraqib). “Ho cercato di mettere immagini che non stanno nell’Otello” spiega Leo. “Nel testo di Shakespeare non ci sono didascalie. Volendo fare una traduzione pura, senza toccare il testo, potevo lavorare solo negli spazi tra le parole. Un giorno parlavo con un Abbado e gli ho chiesto quale fosse la differenza tra un direttore orchestra e un altro. Mi ha risposto: non suono le note, ma gli spazi tra le note. Io ho fatto una cosa simile. Il cellulare che squilla con il nome di Desdemona, e vibrando sposta le strisce di coca, è il senso del suo amore e la sua distruzione. O la scena dello scialle di Desdemona in cui ‘cancello’ Emilia: è questo il lavoro che è veramente mio”.
Edoardo Leo sceglie per sé il ruolo più affascinante
È il ruolo più ambito da ogni attore, quello di Iago, quell’uomo mosso da invidia che ordisce un tremendo inganno verso Otello, insinuando in lui il tarlo del dubbio, la serpe della gelosia. È bravissimo anche nella recitazione, Leo. Lavora per sottrazione, scarnifica il personaggio, lo riduce all’osso. Poche parole, essenziali, dosate, che pesano ogni volta come macigni. Il volto fermo, che lascia che il veleno esca dagli occhi piccoli e infuocati. “Il lavoro sul corpo è il più entusiasmante” racconta Leo. “Iago è un personaggio talmente incredibile da recitare. Quasi tutte le interpretazioni di Iago ne danno dei personaggi tutti un po’ storti, deformati fisicamente. Ho pensato a come lavorare: ho messo su 20 chili, ho fatto un lungo lavoro di invecchiamento. È stato un viaggio incredibile. Il lavoro che viene fatto non è diverso da quello che ho fatto per Pietro Zinni di Smetto quando voglio. So la biografia del personaggio: so di questo Iago che percorso ha fatto, il rapporto con la madre, se è stato in carcere. Poi non lo dico, ma mi serve. Lo faccio sempre, sia con le commedie che per questi film. Iago è scritto talmente bene che non è difficile. È l’esasperazione di un narcisismo patologico di un uomo che vuole sottoporre gli altri alle proprie macchinazioni. Non riesce a resistere a manipolare le persone”. Odio, vendetta, invidia, gelosia. Sono sentimenti che non muoiono mai, che fanno parte dell’uomo. Dal Seicento arrivano intatti a oggi, forse ancora più potenti.
Un’opera senza tempo e senza luoghi
Gira la sua storia in ambienti freddi, geometrici, asettici. Sono evocativi di una certa criminalità che ormai conosciamo attraverso film e serie, ma allo stesso tempo riescono ad astrarre la storia, come merita l’Otello, opera senza tempo. “Il look del film è stato oggetto di lungo studio, con un giovane direttore della fotografia che mi ha dato suggestioni enormi” racconta Leo. “La sfida era fare un film profondamente realistico, quasi documentaristico, in un’opera che si portava dietro dialoghi letterari. Perché funzionasse serviva un mondo coerente nella narrazione. Ho scelto luoghi che fossero non luoghi. Ho svuotato il film dalle figurazioni. Tranne la scena in discoteca, in cui le altre persone sono ombre, in scena ci sono solo i personaggi che parlano. È un film di parola”. I personaggi del film, nella rilettura di Edoardo Leo, sono reali, credibili. Ma, allo stesso tempo, portano con sé quella gravitas, quel peso che hanno dei personaggi di una tragedia che ha centinaia di anni.
Il viaggio nelle università
Che è stato sorprendente. “Scoprire che il 99 per cento delle ragazze in sala ci raccontavano che tutte hanno subito un episodio di molestia, scoprire quando le donne siano psicologicamente allenate a difendersi è terribile” ci rivela l’autore. “Non penso che il cinema possa dare risposte. Ma può porci in maniera più prepotente la domanda. In più di 4 secoli non è cambiato niente. C’è più consapevolezza. Ma la dinamica tossica è sempre quella”. “Questo film, la storia di un uomo che uccide una donna, al tempo si chiamava la tragedia di Otello. Capite quanto è figlio di quel tempo?” continua. “Noi fatichiamo a parlare ai maschi. L’85 per cento, agli incontri, erano ragazze. Perché? È una domanda che mi devo fare come maschio, come artista, come regista. Molte ragazze mi hanno chiesto come mai in un film di questo tipo ci sono poche donne. All’epoca di Shakespeare potevano recitare. E anche questo ci racconta il tempo in cui era prodotto. È ora di cambiare tutto questo”.