di Maurizio Ermisino
Il grande sogno, quello dell’America, di New York, come era vissuto negli anni Quaranta. Un sogno ancora più grande se visto dal basso, da molto in basso, dall’altezza di due bambini. È Napoli – New York, il nuovo film di Gabriele Salvatores, che è stato presentato ieri a Roma, al Cinema Adriano, ed è in arrivo al cinema dal 21 novembre. Napoli – New York è qualcosa di molto speciale, un tesoro riscoperto: Salvatores infatti ha deciso di girare un film da un soggetto di Federico Fellini e Tullio Pinelli, che era andato perduto ed è stato ritrovato in un baule. È la storia di due bambini rimasti senza genitori, che hanno l’occasione di andare a New York, dove vive la sorella di lei. Un lungo viaggio in nave per arrivare in America e scoprire che le cose non sono quelle che si aspettavano. Ma che c’è una speranza.
Cosa c’è di Fellini nel film di Salvatores?
È questa la prima cosa che ci si chiede guardando il film. C’è una grande nave, carica di promesse e di sogni, e questo è già di per sé molto felliniano. E poi c’è il viaggio, il sogno, il desiderio. Più che una storia felliniana, però, è un tema da film neorealista. D’altra parte, gli anni erano quelli. Salvatores, dal canto suo, non prova mai a voler fare un film felliniano, immaginifico, visionario. E neppure un film che ricalchi il neorealismo. Ma fa uno di quei suoi film che guardano al passato e un po’ nostalgici, molto caldi. Napoli – New York ha un po’ qualcosa di Mediterraneo. Ma attenzione: a parte la trilogia, o tetralogia, della fuga, cioè i suoi primi o tre quattro film, uniti però più tematicamente che stilisticamente, Gabriele Salvatores non ha mai fatto un film uguale all’altro, cambiando a ogni curva, e sperimentando continuamente.
La NY ricostruita che fa i conti con il budget
È una favola, un film di buoni sentimenti. È un film che guarda indietro, a una storia che si svolge negli anni Quaranta del secolo scorso, ma è modernissimo per l’uso degli effetti e, come vedremo, anche nelle tematiche. Quanto alla tecnica, New York è ricostruita molto bene, con fantasia, creatività, mestiere, e poi tanto computer, a Trieste. Tra gli edifici del Porto Vecchio Salvatores è riuscito a ricreare dei credibili docks newyorchesi. La Grande Mela appare dietro, sugli sfondi, con immagini incollate ad arte, o si riflette nelle vetrine. Ogni volta c’è un espediente diverso. Ma anche questa è arte: fare con un budget minore quello che si potrebbe fare solo con un grande budget.
Da Fellini al racconto dell’oggi
E così, durante un processo, si parla di migrazioni, e di emancipazione femminile. Sono degli appigli ai tempi che stiamo vivendo, degli aspetti che non potevano esserci ai tempi di Fellini e che oggi ci sono. Anche per questo Napoli – New York è un film a cui si vuol bene. Come, da sempre, si vuole bene a un grande artista e un uomo schietto e semplice come Salvatores. “A Napoli si dice: ‘Adda’ venì o’ pianerottolo, dicette chille ca’ ruciuliava pe’ scale’. Arriverà il pianerottolo, disse chi rotolava per le scale” spiega il regista. “Viviamo un momento pieno di diffidenza, rancore, a volte di odio. Mi piaceva in questo momento fare un film che parlasse di solidarietà, che raccontasse che quando vediamo da vicino chi è diverso da noi, se lo conosciamo possiamo, anche volergli bene. È un film pianerottolo che ci dà una pausa da tutto questo, che ci fa capire che possiamo essere migliori di come siamo”.
Si vuole bene, ovviamente, anche a Picchio
Pierfrancesco Favino qui fa il poliziotto buono. In scena con baffi d’ordinanza e gelatina sui capelli, è a tutti gli effetti un personaggio d’altri tempi, un po’ un Aldo Fabrizi, un po’ un Carlo Dapporto. È bravissimo nel capire immediatamente quale sia il tono di recitazione che serve al film, leggero e giocoso, mai comico, ma empatico e brillante. La scena in cui si presta a fare da traduttore durante l’interrogatorio è da antologia. “È un film che non pretende di dare lezioni a nessuno” riflette l’attore. “Dalle pagine trovate in un baule di casa Pinelli è arrivata una fantasia di persone che non erano mai state a New York e vedevano l’America come un sogno. E hanno attinto a una cosa che avevano intorno, l’immigrazione. E hanno voluto vederla come una favola di formazione. È difficile limitarsi a questo: leggendo quelle pagine mi sono reso conto che vivevano in un altro momento storico. È una favola, non pretende di essere una lezione etica a nessuno, non pretende di insegnare niente, né di avere un valore storico. Forse una generazione futura riuscirà a fare delle scelte diverse da noi. E a dimostrarci che la solidarietà umana è possibile”.
Un sogno che può diventare un incubo
Ma è interessante capire che cosa, del film, sia rimasto del soggetto di Fellini e Pinelli, e cosa sia nato dalla creatività di Salvatores. “Mi commuove che in questa tribù di cinematografari una storia che si stava perdendo sia stata ritrovata. questi erano i nostri maestri” ci risponde Salvatores. “Che cosa ho cambiato? Il finale. Non proprio il finale, ma la parte americana. Nel finale, che non era ben chiuso, c’era troppa fiducia nel Sogno Americano. È stato scritto subito dopo la guerra, loro ci avevano liberato, erano alti, biondi, belli e ci portavano la cioccolata. Abbiamo vissuto gli anni dopo e l’America che ho sempre amato per il cinema, la musica, la letteratura non è più quella che adesso vedo. Il Sogno Americano può diventare un incubo. Ho cambiato il finale perché c’era troppa fiducia nel popolo americano, nel comprendere le capacità degli altri. Ma è vero che la prima donna condannata a morte negli Stati Uniti era italiana. Tutta la storia del processo, compresa la requisitoria dell’avvocato, sono andato a prenderla da un report sugli immigrati italiani del 1912. E sono le parole che sentiamo dire oggi sui migranti”.
George è Omar Benson Miller
C’è anche un attore americano trai protagonisti: è Omar Benson Miller, attore afroamericano, un gigante buono che nella storia è George, il cuoco della nave che attira i due bambini. Quello che ci ha detto ieri è molto significativo. “Penso che questo film sia molto più rilevante oggi per un americano dopo le elezioni di martedì scorso” ha spiegato. “Lo era anche prima, ma oggi di più: quello che affrontavamo in America nel 1949 lo stiamo vivendo di nuovo nel 2024. Mia madre, che è del 1942, è rimasta in piedi fino a mezzanotte per vedere questo film. Le ha ricordato i momenti in cui lei cresceva, e l’appartenenza a un gruppo che gli altri guardavano dall’alto in basso”.