di Maurizio Ermisino
Si chiama Luce, una parola che nel viaggio intorno al senso di quest’opera può essere interpretata in molti modi, il nuovo film di Silvia Luzi e Luca Bellino, presentato oggi a Roma e in arrivo nelle sale il 23 gennaio. È un piccolo film a cui però è bene dare attenzione. Perché fa delle scelte precise, rigorose, coraggiose a livello formale, cercando una forma visiva e di racconto che non è banale e va controcorrente rispetto al racconto del reale che oggi sembra andare per la maggiore. Per questo Silvia Luzi e Luca Bellino, i registi di Luce, sono degli artisti da seguire. Luce è quello che si può definire un film intimista e minimalista, ma è anche onirico. È uno di quei film che continua dopo la visione, perché lascia aperte molte domande, molte riflessioni. Luce, opera seconda di Silvia Luzi e Luca Bellino, arriva in sala il 23 gennaio, distribuito da Barz and Hippo. Interpretato da Marianna Fontana, con la voce di Tommaso Ragno, il film è una produzione Bokeh Film, Stemal Entertainment con Rai Cinema, prodotto da Donatella Palermo.
Una ragazza, un armadio e un telefono
La storia è apparentemente semplice. Incontriamo la protagonista alla comunione di una cuginetta, dove un giovane uomo sta girando il film della cerimonia. La bambina non la vediamo mai, e sin dall’inizio la mdp, invece, è costantemente sulla protagonista. La vedremo raccogliere l’acqua del mare in una bottiglia. La vedremo, in serata, raggiungere un muro, quello di una zona protetta, invalicabile, e far andare al di là un drone. Qualche giorno dopo la ragazza – che lavora come operaia in una conceria di pelli – inizia a ricevere delle telefonate da un uomo. All’inizio del film l’avevamo vista chiudere a forza, con dei chiodi, un armadio. Alla fine lo riaprirà.
Quello che non c’è
Chi è quell’uomo? È il padre che lei aspetta o è un altro uomo? Dove si trova? In carcere o in qualche altro “altrove”? Esiste davvero o quelle telefonate sono solo nella testa della ragazza? Che cosa c’è in quell’armadio? Da tutto questo avrete capito che Luce è uno di quei film ipnotici, intriganti, sostenuti da una tensione costante e sottile. Un film che, come detto, non ci dà risposte ma stimola, come fa con la protagonista, la nostra immaginazione. Ma quel cellulare è davvero arrivato con un drone, o è un messaggio nella bottiglia? “Possiamo partire dalla cronaca” ci spiega Silvia Luzi. “2020, lockdown: 36 cellulari trovati a Poggioreale, qualche mese dopo 42 cellulari trovati a Regina Coeli. Questo accade. Nell’immaginifico quello lanciato è un messaggio nella bottiglia. Questo è un film che parla dell’assenza, su un fuoricampo, su un fuori fuoco. È un film su quello che non c’è, un sogno lucido. E la figura del padre – o della voce – rappresenta proprio questo. Tommaso Ragno ha dovuto trovare una chiave per gestire un’apparizione che era una solo una voce. Qualcuno che era e non era al tempo stesso. Non sappiamo mai se è il padre o non lo è, o se è tutto un delirio”.
Vivere la necessità del sogno
A renderlo unico è la forma visiva. Se all’inizio, la mdp a mano e la tecnica del pedinamento fanno pensare ai Fratelli Dardenne, le scelte dei registi vanno in una direzione opposta a quella del naturalismo. I registi scelgono di avere l’attenzione sempre e soltanto sulla protagonista. I primi e i primissimi piani, la gran parte delle sequenze, sono tutti sul suo volto. Il che permette di scrutarlo. E di provare a scrutare nell’anima protagonista. “Nel nostro film precedente l’idea era quella di essere vicini per poter vivere con i personaggi nel momento in cui prendevano le decisioni” ci ha spiegato Luca Bellino. “Non dico ascoltare i pensieri, ma quasi. In questo caso il film ha una forte dimensione onirica e l’idea era quella di creare un dispositivo che permettesse allo spettatore di vivere la necessità del sogno, di vedere i sogni. In questo il primo piano si abbina al tempo reale delle telefonate, non ci sono tagli. Perché lo spettatore doveva vivere i cambi d’umore, gli stati d’animo, ma anche l’alternanza continua tra realtà e bugia. Speriamo che questo sia il sentimento con cui lo spettatore possa uscire dalla sala”.
Un fuoco che disorienta
Tutto il resto è fuori campo. A partire dall’uomo, presente solo con la voce (di Tommaso Ragno, già efficace personaggio in gran parte basato sulla voce nel film Vetro) come è naturale, parlando al telefono. Ma anche ogni altro personaggio o non è inquadrato o è volutamente fuori fuoco. È la storia di questa ragazza: tutto avviene in sua funzione. Tutto avviene intorno a lei. O forse dentro di lei. Il resto è tutto sfumato, sfuggente, evanescente. “Il fuori fuoco è qualcosa che non ti dà la verità” spiega Luca Bellino. “Come Il figlio di Saul di László Nemes è pieno di enigmi. L’uso del fuoco serve a quello, a disorientare. E non disorienti solo il personaggio, perché lo isoli: disorienti anche lo spettatore, perché in qualche modo lo coinvolgi. E lo fai in un modo che è esattamente il contrario di quello che sta facendo la drammaturgia in questi anni, per via degli algoritmi, di una pigrizia degli spettatori, del bisogno di essere continuamente stimolati ad avere risposte. La mancanza di fuoco è anche la mancanza di risposte”.
Marianna Fontana nella sua prova migliore
La prova di Marianna Fontana (lanciata, insieme alla sorella gemella Angela, da Inseparabili) è quindi di un’intensità notevole. Con la mdp addosso al volto, deve dare tutto, non risparmiarsi, tirare fuori ogni emozione, sorrisi e pianti, anche nel giro di pochi istanti. Gli occhi grandi, neri, luminosi e liquidi, il sorriso aperto. Marianna Fontana qui offre la prova migliore della sua già lunga carriera, a dispetto della giovane età. “C’è stata una grande intensità in ogni ciak, non potevo riposarmi” ci ha rivelato l’attrice. “Per me è stato un lavoro molto interessante, e costante. Abbiamo provato talmente tanto che a un certo punto la mdp non l’ho più sentita, era normale averla addosso a ogni singolo momento”.