Le tensioni geopolitiche e l’ondata inflattiva, generata dall’aumento dei costi delle materie prime e dell’energia, hanno determinato discontinuità senza precedenti, su scala globale, che in Italia investono società civile, istituzioni e attori economici.
Nel corso dell’incontro promosso giovedì 2 marzo da Centromarca – Associazione Italiana dell’Industria di Marca, in collaborazione con il Corriere della Sera, esperti, esponenti delle istituzioni e dell’industria hanno affrontato il tema da molteplici prospettive, approfondendo contesto e possibili scenari.
“La dimensione della aziende è centrale nella risposta all’attuale crisi”, ha spiegato il Presidente di Centromarca, Francescso Mutti. “Guardando ai numeri, la media delle imprese italiane – piccole, medie e grandi comprese – arriva a poco più di 4 milioni annui di fatturato. Non sempre ‘piccolo è bello’: spesso piccolo è fragile, perché le strutture non sono in grado di reggere imprevisti quali quelli che si sono susseguiti negli ultimi anni. La pandemia prima, la guerra dopo, con l’inflazione che ci sta accompagnando dal 2022, anno in cui è ‘esplosa’ per proseguire anche quest’anno con minime reazioni ai provvedimenti monetari che sono stati adottati nel frattempo. Bisognerebbe lavorare sui fenomeni infrastrutturali per combatterla, ma le possibilità di intervento in un paese come il nostro, con un a situazione debitoria pari a oltre il 150% del Pil, risultano per forza di cose limitate. Occorre sviluppare una strategia che investa gli assi portanti della nostra economia, la manifattura industriale in primis”.
Ma si lasci anche per un momento da parte l’incremento dell’inflazione, che è si attuale, ma che in una certa misura è dovuto agli aumenti di prezzo dell’energia, che stanno gradatamente esaurendosi, per affrontare invece un altro problema di carattere sociale, che sta determinando gli avvenimenti nel nostro paese: il ‘ripiegazionismo’, una sorta di sindrome di Sisifo che fa sì che diffonda la percezione dell’inutilità degli sforzi fatti, della vanità di fissarsi obiettivi che meritino di essere raggiunti. E questa sindrome è legata a un fenomento, soggettivo fin che si vuole, ma concreto, la scomparsa (o quanto meno la drastica riduzione) del ceto medio. Se nel 2013 gli italiani che si autodefinivano come ‘ceto medio’ rappresentavano il 70% della popolazione, adesso arrivano al massimo al 38/40% del totale. A questo fenomeno, che corrisponde a una chiusura in sé stessi e nella proprie -scarse – disponibilità economiche, si abbina il blocco dell’ascensore sociale, che demoralizza le nuove generazioni, che non trovano più tra gli obiettivi raggiungibili, l’istruzione e l’impegno personale, quelli capaci di farli concretamente scalare la struttura classista della società.
Una dimostrazione banale di questo atteggiamento? La riduzione degli scarti, dei rifiuti. In Italia è mediamente di 100 grammi al giorno, in società più ricche come quella statunitense arriva a 200 grammi. Recupero e riuso al posto dell’isola ecologica, non solo in ottica green come è spesso pubblicizzato, ma proprio per il risparmio intrinseco.
Questa visione cupa e pessimistica è almeno in parte alleviata dalle grandi energie e potenzialità, espresse nei progetti individuali e comuni. Come afferma il filosofo Mauro Magatti, vi sono persone che lasciano il lavoro per non avere più a che fare con le comunità di riferimento, ma sono molti di più quelli che si alleano per resistere ai marosi, nella visione di società porosa che è la nuova forma assunta, dopo la metamorfosi della globalizzazione come bene in sé, per dimostrare di essere pronti e reattivi come richiede l’appartenenza a un mondo nuovo e, paradossalmente, più grande e pronto alla trasformazione.