di Maurizio Ermisino
C’era una volta una regola aurea, al cinema e in ogni altra forma narrativa: se in una storia muore il protagonista, questa storia non può avere un seguito. Pensiamo di non fare spoiler parlando de Il Gladiatore, un film di più di 20 anni fa. Tutti sappiamo che il glorioso Massimo Decimo Meridio di Russell Crowe moriva alla fine del primo film. Nel cinema di oggi, però, tutto è possibile. E allora dopo due decenni Ridley Scott è riuscito a girare il seguito di quel film, Il Gladiatore II, che arriva finalmente al cinema il 14 novembre. Avvicinandosi a un film che va a toccare un cult del cinema (che, appena uscito, non sembrava tale, ma queste cose le dice il tempo), senza l’attore che ne è stato l’anima, la resistenza è normale. Si va a vederlo con parecchie remore. Eppure Ridley Scott è riuscito a conquistarci un’altra volta. È riuscito in qualche modo a trovare una storia che sta in piedi, a trovare gli attori giusti, e anche un messaggio nuovo e potente. Il Gladiatore II è un film spettacolare, che non stanca per nemmeno uno dei 150 minuti della sua durata, è enfatico e rispettoso dell’originale. Certo, è uno spettacolo di grana grossa, per nulla raffinato. Ma, si sa, Roma era questa. Ed è probabilmente il film che, in questo momento, può portare la gente al cinema: è in sala che va visto.
Due gli attori protagonisti
Paul Mescal è Annone, guerriero che viene dalla Numidia, sconfitto e reso schiavo, portato a Roma e mandato a combattere nell’arena con gli altri gladiatori. Pedro Pascal è Acacio, il generale che ha portato a compimento la vittoriosa campagna di Numidia, e, tra gli altri, ha catturato Annone, dopo avergli fatto uccidere la moglie, valorosa guerriera. Acacio è anche il marito di Augusta Lucilla (Connie Nielsen), figlia di Marco Aurelio e sorella di Commodo. Le scelte degli attori sono perfette. Mescal ha gli occhi blu di Russell Crowe, pieni di umanità dietro la rabbia e la fierezza. Sono incastonati in un volto roccioso, spigoloso. E il fisico è quello giusto per il ruolo. Pascal è il protagonista più anziano, il soldato che ha nei suoi occhi e nel suo volto l’espressione della giustizia e della maturità. La scena rischia di rubarla spesso Denzel Washington, che è Macrino, il mercante di gladiatori: barba e capelli grigi, il sorriso beffardo e suadente, il volto, il corpo e le mani ricoperti d’oro e gioielli. È una presenza indubbiamente carismatica. Così come lo è Connie Nielsen, il collegamento più evidente con il primo film: vent’anni dopo è ancora bellissima, imponente, statuaria, regale. E dolente, come il destino le impone
Non sembra neanche un sequel, all’inizio
È questa la sensazione, tanto è una storia che parte da lontano, altri luoghi e altri personaggi, per confluire dove tutto era finito, al Colosseo. Non sarebbe neanche un vero e proprio legacy sequel, perché di vecchi personaggi, accanto ai nuovi, c’è solo quello di Connie Nielsen. Uno snodo nella storia, una rivelazione sulle relazioni che legano i personaggi, però, riesce a collegare in modo tutto sommato credibile i due film: possiamo parlare di sequel e di continuazione della storia. Russell Crowe appare in alcuni flashback, poche scene essenziali per la trama. E in alcune citazioni: quel modo di sollevare la terra per creare del fumo, come strategia di combattimento, quell’armatura con i due cavalli, il gladio di Massimo Decimo Meridio. E, ovviamente, quella musica che risuona ed evoca immediatamente un mondo.
Spettacolo puro
Ridley Scott si muove tra Storia e fantasy. Evoca una Roma immaginaria, senza pretese di verità storica, puntando a stupire. Se un sequel deve alzare l’asticella rispetto all’originale (almeno così si pensa), Ridley Scott non si tira indietro. Là dove c’erano le tigri, ora, nell’arena, ci sono delle inedite scimmie combattenti, rinoceronti corazzati e, ebbene sì, gli squali. Sì, si tratta di sospendere l’incredulità, ma nell’economia dello spettacolo funziona. D’altra parte Ridley Scott, da quando, da regista pubblicitario, ha portato certi codici di comunicazione nel cinema, ha contribuito a cambiarlo. Ha fatto almeno tre-quattro volte la Storia del Cinema (I duellanti, Alien, Blade Runner, Thelma & Louise) e anche la storia della pubblicità, con uno degli spot più belli di tutti i tempi, quel 1984 che riprendeva il mondo di Orwell, per il lancio del Macintosh di Steve Jobs, proprio nel 1984. È chiaro che sappia come costruire uno spettacolo.
Ma c’è anche un messaggio forte
Si insiste più volte, durante il film, su un “sogno romano”, quello che aveva in mente Marco Aurelio, che voleva restituire il potere al Senato e al Popolo. Si parla di una terra che torni ad essere quella in cui una legge protegga tutti, che non sia in balia di dittatori e persone che pensano solo al potere. “Una città per molti e un rifugio per chi ha bisogno” chiede Annone (ma avrete imparato a chiamarlo in un altro modo) alla fine del film. E sembra davvero chiaro il riferimento al “sogno americano” che oggi pare morto, portando con sé in realtà i sogni di tutto l’Occidente, in cui la legge giusta, le pari opportunità, il rifugio sembrano non essere per tutti. Oltre a cambiare, sullo schermo, la Storia, come solo il cinema sa fare (ricordate alcuni film di Tarantino?), a rinverdire i fasti de Il Gladiatore, Ridley Scott è riuscito a girare un film politico, con un messaggio ben preciso. E anche ad evocare, nel finale, quell’agognata pace che in tante parti del mondo stanno aspettando. “Ciò che facciamo in vita riecheggia nell’eternità”. Il primo Gladiatore è un film che è rimasto. E potrebbe farlo anche questo.