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Festa del Cinema di Roma, Gabriele Muccino presenta il suo ‘Fino alla fine’. Tutto in una notte tra romanzo e thriller. “Il film parla di libertà, è un messaggio per tutte le generazioni”

di Maurizio Ermisini

Corse, corse, tante corse a perdifiato. C’è sempre stata tanta gente in continuo, affannoso movimento nei film di Gabriele Muccino, soprattutto nei primi. Anche qui si corre, come se non ci fosse un domani. Ma, lo capirete, per una ragione completamente diversa a quella a cui eravamo abituati nei suoi film. Gabriele Muccino, con Fino alla fine, presentato alla Festa del Cinema di Roma e in uscita al cinema il 31 ottobre, è un film completamente diverso dagli altri. Rimane a metà tra un romanzo di formazione e un thriller. O, almeno, un thriller in potenza, con un’energia potenziale di pericolo pronta ad esplodere da un momento all’altro. Lo farà. Fino alla fine è uno di quei film che – sul solco del classico Fuori orario di Martin Scorsese – si svolge tutto durante una lunga nottata. Si tratta di stare al gioco, lasciare da parte i dubbi e sospendere l’incredulità, e godersi il film: Fino alla fine è un film adrenalinico, ansiogeno. E, soprattutto, molto godibile.

Per Gabriele Muccino è un nuovo inizio

Il regista trova la sua eroina, per la prima volta una donna. Se ne innamora, ovviamente in maniera cinematografica, e la segue lungo questa avventura. Forse un po’ ci si riconosce, ci ritrova se stesso da giovane, energico ed entusiasta. “Da tempo volevo raccontare la storia di una donna” ci ha raccontato Muccino all’Auditorium. “Mettendo insieme un po’ di punti, di film che mi hanno ispirato. E l’antica ispirazione di Fuori orario di Scorsese che mi ha inseguito per anni per farmi fare un film come quello, tutto in una notte”. “Volevo che una donna sorreggesse un’intera storia” continua. “Insieme a Paolo Costella abbiamo immaginato la storia di una donna che arriva a Palermo dopo un viaggio in Italia. Entra in un uragano e si porta dietro tutto. Una ragazza di provincia americana che non aveva mai espresso se stessa, che aveva tentato un suicidio, e soffre per la morte del padre, a Palermo vede dei ragazzi che si tuffano. E nuotando arriva a uno scoglio. Incontra i ragazzi e uno di loro lo trova vicino. Entrambi sono irrisolti. Quello che le manca è la vita. Non ha mai vissuto veramente”.

Come i suoi protagonisti, anche il film è vitale ed energico

Lo è la macchina da presa, mobilissima, sempre nel centro dell’azione. Spesso è una macchina a mano. A tratti ci ricorda proprio quell’energia e quel continuo stato di agitazione del primo Muccino. Che qui abbandona i romanzi familiari dei suoi ultimi film, A casa tutti bene e Gli anni più belli per gettarsi in un thriller, un film di genere, in cui i confini tra bene e male sono sfumati. “Volevo raccontare da tempo questa linea di confine” ci svela il regista.  “Quando vidi American Beauty stavo scrivendo L’ultimo bacio. E mi è venuto il desiderio che in quel film ci fosse il morto. Il morto non c’è in quel film, ma avrei voluto sempre metterlo”. “Dal punto di vista cinematografico un film così è importante perché sfondi barriere di linguaggio, affronti sfide linguistiche” continua. “Abbiamo girato una scena in una macchina che era guidata autonomamente, da una persona con un pod sopra il tetto, ma la mdp era dentro la macchina con loro. Ho sempre scelto film pericolosi che mi mettessero paura di sbagliare invece che film safe. Ogni volta che ho fatto un film sicuro è andato meno bene di quelli pericolosi”. “Questo film poteva essere un disastro” aggiunge. “Qualcuno poteva farsi male. Viaggiare con quella macchina a Palermo, di notte, è stato comunque pericoloso. È stato un film girato con il brivido addosso degli attori e della troupe. L’adrenalina non è simulata, è reale: gli attori l’hanno provata sul loro corpo”.

Elena Kampouris, americana di origine greca, è la protagonista

Una di questi attori con l’adrenalina nel corpo è lei. Interpreta Sophie con slancio ed emotività. È così bella che attira su di sé la luce e tutta l’attenzione. Recita con tutto il corpo, muovendosi nello spazio e in rapporto agli altri attori. È un po’ acerba, inevitabilmente, in alcuni passaggi della recitazione, soprattutto perché recita spesso in italiano, una lingua non sua. Ma sa essere intensa nei momenti decisivi. “Era così facile empatizzare con Sophie e con gli altri” racconta. “Tutti hanno questa voglia di vivere al massimo, di lasciarsi andare. Sophie ha vissuto una vita limitata, senza gioia e quando incontra Giulio le si apre la luce. Sono molto più cauta di Sophie nella vita e ho tematizzato con lei in questa voglia di vivere al massimo”.

A colpire è anche Lorenzo Richelmy

Qui interpreta Giovanni, alias il Komandante, un amico di Giulio e leader del suo gruppo di amici. È un attore che cresce di film in film. E oggi il volto della follia e dell’eccesso del nostro cinema è soprattutto lui. “Il film parla di libertà, è un messaggio per tutte le generazioni” interviene. “La necessità di trovare in se stessi la libertà di fare delle scelte è una cosa che ci stiamo dando un po’ tutti. Quanto siamo veramente liberi? Quanto è più comodo sentirci limitati nel fare delle scelte? Il messaggio del film è extra generazionale. Dobbiamo tutti ricordarci di essere padroni delle nostre vite. E quando non lo siamo non c’è un dio che ci obbliga a non sentirci liberi”. “Non usate il termine film generazionale. Lo odio dal 2001” aggiunge Muccino. È così, infatti, che a quel tempo fu definito il suo L’ultimo bacio.

Muccino è sempre Muccino  

“Muccino è un regista carbon fossile. Si agita, suda, ti grida addosso”. È così che lo racconta Richelmy, è così che lo abbiamo sempre immaginato sul set, ed è così che ci piace. È interessante che, da artista ormai affermato, Gabriele Muccino guardi contemporaneamente al futuro e al passato. Al futuro perché Fino alla fine, per lui, è un genere completamente nuovo, un totale cambio di prospettiva. Al passato perché recupera molta della vitalità dei suoi primi film, ansiogeni e agitati, senza un attimo di respiro. Certo, Fino alla fine è uno di quei film in cui si tratta di sospendere l’incredulità – ma non lo facciamo sempre quando andiamo al cinema? – una di quelle storie in cui il protagonista comincia a fare, a ogni scelta, quella più sbagliata possibile. Anche quella di svoltare verso il nero, verso il crimine. Ma, appunto, non è una cosa legata a una generazione. “La criminalità non ha età” spiega Muccino. “Della loro età questi personaggi hanno l’impeto, quella forza di sentirsi immortali. C’è una linea invisibile tra giusto e sbagliato, lecito e illecito. Trovarsi dall’altra parte è più facile di quello che crediamo. Il modo è fondato sulla prevaricazione. È ovvio che noi non solo siamo cacciatori ma anche assassini nell’animo. Lo siamo stati per millenni. Il confine tra bene e male è molto più sottile di quello che pensiamo”. Questo Muccino più noir alla fine ci piace. Nella sua prossima avventura ci piacerebbe vederlo nella commedia pura, magari anche in scena: la sua apparizione nella serie Call My Agent è stata strepitosa.