di Maurizio Ermisino
“La morte non andrebbe cercata. È qualcosa che circonda ogni nostro errore. Ogni nostra mossa giusta o sbagliata”. Immaginate queste parole lette dalla voce calda e profonda di Filippo Timi, e avrete un’idea di che cosa è Dostoevskij. Presentata in anteprima mondiale alla 74ª edizione del Festival di Berlino, è una serie Sky Original in 6 episodi, prodotta da Sky Studios con Paco Cinematografica, ideata, scritta e diretta dai Fratelli D’Innocenzo. La serie verrà distribuita al cinema per intero in due parti, atto I e atto II, da Vision Distribution nella settimana dall’11 al 17 luglio. Si tratta di un’occasione unica per fare “binge watching” al cinema: si potrà vedere tutta la serie nella stessa giornata, o in due giorni diversi. E, visto che è in vigore la campagna Cinema Revolution, per cui tutti i prodotti italiani ed europei si possono vedere con 3.50 euro, con il prezzo che normalmente paghereste per un film, avete l’occasione di vedere tutta la serie. Un’occasione unica per immergersi nelle atmosfere ipnotiche, avvolgenti, tesissime di Dostoevskij.
Dostoevskij è la prova che oggi i confini tra serie tv e cinema sono diventati più labili
Quando parliamo di autori, e i Fratelli D’Innocenzo lo sono, una serie può essere anche un film e un film essere una serie. “Assolutamente sì” ci rispondono i Fratelli D’Innocenzo. “Ci sono già fin troppi confini nel mondo. Applicarli anche all’arte significherebbe, banalmente, deluderci per l’ennesima volta. Quante volte abbiamo visto Taxi Driver stoppando il film dopo venti minuti e continuandolo la sera dopo? Ciò fa di Taxi Driver una serie? E se Taxi Driver lo vediamo in tv smette di essere cinema? E se pensiamo a Taxi Driver in metropolitana, a cosa stiamo pensando? Al cinema, a un amico, a un familiare”. Ma, mentre la giravano, stavano pensando a un film o a una serie? “Entrambe le cose” ci rispondono. “Abbiamo cercato di fare il migliore dei film e la migliore delle serie possibili”. La tendenza delle serie che sono cinema e hanno una loro vita anche in sala iniziò più di 20 anni fa, nel 2003, con La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana. Due anni fa l’esperimento fu ripetuto, e riuscì, con Esterno notte di Marco Bellocchio, e quest’anno c’è stato il caso de L’Arte della Gioia, di Valeria Golino, altra serie Sky Original portata al cinema da Vision, dopo il passaggio al Festival di Cannes.
Dostoevskij si apre con una lettera d’addio
È l’annuncio di un suicidio, un ultimo saluto alla figlia. La macchina da presa scorre lungo un tavolo con una fila di boccette di pillole vuote. Ma la notizia di un assassinio scuote l’uomo che decide di vivere ancora. È Enzo Vitello (Filippo Timi), un poliziotto alle prese con i fantasmi del suo passato e con Dostoevskij, un assassino chiamato coì perché accanto alle vittime lascia delle lettere scritte a mano. Dostoevskij è un True Detective girato nelle campagne italiane – luoghi metafisici come certi posti del sud degli States – più spoglio e privo di orpelli, in realtà ricchissimo per allestimenti, come vedremo.
Dostoevskij si muove in un mondo illuminato da una luce fioca
È avvolto in una patina antica, in una grana sporca. È stato girato in pellicola, cosa che nessuno ormai fa più, e certe sporcature, certi graffi che denotano questa lavorazione arrivano sullo schermo e ci fanno sentire che stiamo assistendo a qualcosa di diverso. “Il killer ribattezzato Dostoevskij scrive su pezzi di carta e ci sembrava giusto raccontare questa storia con ‘la carta del cinema’, ovverosia la pellicola” ci hanno spiegato i registi. Dostoevskij è cinema, prima ancora che tv. È cinema che viene da un altro tempo, da molti anni fa. Anzi, forse è senza tempo.
L’opera dei Fratelli D’Innocenzo ci immerge in un mondo carico di squallore, di povertà, di disperazione
Si sofferma, con primissimi piani, su pillole, mozziconi di sigarette, su ogni dettaglio possibile di sporcizia. Sembra tutto casuale, invece ognuno di quei dettagli è studiato ad arte. Raramente ricordiamo di aver visto un lavoro sulle scenografie di questo tipo, su interni che racchiudono un iperrealismo dello squallore. Come hanno lavorato i registi in questo senso? “Non accontentandoci mai” rispondono. “Grande pazienza, grande talento e grande lavoro. Non ringrazieremo mai abbastanza Roberto De Angelis, Elena Baschieri, Alain Parroni, Andrea Gullace e tutta la squadra di scenografia. Ogni cosa presente in Dostoevskij è stata manipolata dall’arte del fare cinema. Ogni posto inquadrato era, prima del nostro intervento, un posto meno interessante e meno a fuoco”. Molti luoghi sembrano dei paesaggi-stato d’animo: Tutti questi posti in stato di abbandono sembrano rispecchiare l’abbandono in cui versano i personaggi. “È esattamente così” confermano i due fratelli.
Da un’indagine su un assassino, Dostoevskij diventa l’indagine dentro se stesso di un uomo
È una storia che ci racconta la vita come continuo dolore e sofferenza, come eterno girone dantesco. Lasciate ogni speranza voi che entrate. Ci sono qua e là dei lampi di speranza, come il pomeriggio in cui la figlia di Enzo, al luna park, rivive quell’infanzia che non ha mai avuto. O come l’incontro della coppia che sta per avere un bambino. Ma sono, davvero, dei bagliori isolati nel buio. Dostoevskij è una serie che parte piano e deflagra nel secondo atto, con un paio di colpi di scena devastanti. Si tratta di saper attendere e precipitare dentro le atmosfere sapientemente costruite dai Fratelli D’Innocenzo. A trascinarci è un Filippo Timi emaciato, sfinito, devastato. Accanto a lui spiccano Federico Vanni, l’umano e crepuscolare capo della polizia, Gabriel Montesi, lo spigoloso collega arrivista, e la sorprendente Carlotta Gamba, nei panni di Ambra, la figlia di Vitello.
È la storia di una famiglia disgregata
Un racconto di padri e figli che non comunicano, di bambini traditi, abbandonati e perduti. In questo senso, l’opera dei D’Innocenzo segue i temi inaugurati da Favolacce e America Latina. Come vedono oggi i due artisti la famiglia? “Come l’inizio di tutto e la fine per molti”.