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A Complete Unknown al cinema dal 23 gennaio. Timothée Chalamet è Bob Dylan, ma troppo bello e curato. Così come il cast. La musica però entra nel cuore

di Maurizio Ermisino

“Il giorno che Bob Dylan imbracciò una chitarra elettrica”. Si chiama così il libro da cui è tratta la storia di A Complete Unknown, il film di James Mangold su quello che fu il menestrello di Duluth, che è stato presentato oggi a Roma ed è in uscita al cinema il 23 gennaio. A interpretare Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan, è Timothée Chalamet, la nuova star del cinema, che si cala con passione e grande cura nel ruolo, mentre Edward Norton è un empatico Pete Seeger e Monica Barbaro un’intrigante Joan Baez. Il Bob Dylan che imbraccia la chitarra elettrica, come se fosse un’arma, per diventare finalmente libero e non compiacere il pubblico, arriva alla fine del film. È quello della famosa svolta rock, quello del tradimento messo in atto al Festival Folk di Newport del 1966. Il pubblico aspettava le sue canzoni voce e chitarra acustica, aspettava Blowin’ In The Wind. Ma lui era già oltre. Aveva registrato le canzoni dell’album Highway 61 Revisited, aveva scritto Like A Rolling Stone, e voleva cantare quelle canzoni. Il pubblico lo rifiutò. Bob Dylan aveva tradito il pubblico per non tradire se stesso. Ed era diventato uno dei più grandi. A Complete Unknown segue la sua parabola da quando, nel 1961, era arrivato a New York da Minneapolis.

Una costruzione accurata

James Mangold è un regista notevole, in questo senso aveva già raccontato la storia di Johnny Cash in Quando l’amore brucia l’anima – Walk The Line. Ed è attento a ricostruire la New York e il Village degli anni Sessanta, la scena folk, gli incontri con Woody Guthrie, Pete Seeger, Joan Baez. James Mangold ricostruisce tutto in modo credibile, segue i fatti ma poi lascia libera la storia e suoi attori, si concentra sui rapporti e sui sentimenti. “Abbiamo letto molti racconti su Bob Dylan. E tutti si contraddicono” ha spiegato il regista. “Invece di andare a trovare la realtà fattuale, che sui dischi e la cronologia abbiamo seguito, abbiamo cercato di trovare il feeling, il tono della verità. Risentire le vibrazioni, le sensazioni di essere per strada, negli studios, accanto a queste persone prima che sapessero di diventare famose”.

Timothée Chalamet

In testa ha un cappellaccio di velluto, come la giacca. Sono gli anni in cui si suona nei bar del Village, il Folk City, il Gaslight. Si fa girare un cestino in cui il pubblico mette i soldi, ci si sposta da un bar all’altro. Si condividono il palco e le canzoni. Si condividono, soprattutto, gli ideali: la pace, la non violenza, la lotta alle discriminazioni razziali e alla guerra. Canzoni come Blowin’ In The Wind, Masters Of War, The Times They Are A-Changin’ sono questo. È tutto molto diverso dalla musica di oggi. “Negli anni Sessanta l’ambiente socio politico culturale era diverso: c’era un certo ottimismo, sincerità, valore etico del lavoro” spiega Chalamet. “Oggi c’è più cinismo, se qualcuno cerca di fare una canzone politica le persone alzano gli occhi al cielo e dicono: oddio, qual è la tua motivazione? Forse qualcuno romperà questo vincolo”. La musica oggi è una sorta di anestesia, qualcosa per far passare il tempo” aggiunge Mangold. “È una cosa diversa rispetto all’epoca. Il pubblico una volta diceva: sorprendimi. Oggi dice: anestetizzami. Oggi il pubblico non vuole essere sfidato. Si tratta di fare delle cose che non facciano anestetizzare le persone”.

Un film che non entra nel cuore delle cose

La ricostruzione storica è perfetta, dicevamo. Le interpretazioni sono ottime. Ma gli attori sono troppo belli e curati per essere i Dylan e le Baez di quei tempi. Guardando il film si ha sempre la sensazione di vedere un film e non di essere nel cuore delle cose. Capisci subito che stai guardando Timothée Chalamet che interpreta Bob Dylan. Quando guardavi Val Kilmer in The Doors credevi davvero di vedere Jim Morrison e di essere sul Sunset Strip di Los Angeles alla fine dei Sixties. Quando guardavi Sam Riley in Control credevi davvero di essere davanti a Ian Curtis dei Joy Division nella Manchester di fine anni Settanta. Detto questo, la prova dell’attore protagonista è buona. E Chalamet dice di aver trovato nella storia delle risonanze con se stesso. “Bob Dylan ha mano a mano tirato fuori chi voleva essere strada facendo” ci ha spiegato. “Ho la sensazione di potermi identificare nel desiderio di Bob di qualcosa di più grande. Non sapendo che cosa fosse, ma cosa fare per arrivarci”. La lezione che la storia di Bob Dylan può lasciarci è “l’individualità, trovare se stessi, il proprio spirito creativo” commenta l’attore. “Era Robert Zimmerman ed è diventato Bob Dylan. La lezione del film è l’auto-creazione, diventare chi vogliamo diventare”.

“Vogliono che canti Blowin’ In The Wind da solo per tutta la vita” dice a un certo punto il Bob Dylan del film. Che è anche un racconto su come lo show business tende a incasellare gli artisti. Monica Barbaro, che è un’affascinante Joan Baez, ne sa qualcosa. “È una cosa molto comune in questa industria” spiega. “Interpreti un ruolo in un film e ogni ruolo successivo sembra identico a quella prima decisione di casting. Dopo Top Gun: Maverick ogni offerta che arrivava era per un film di tipo militare. Ora mi arrivano offerte per dei musical…” A proposito di ruoli, nel film c’è un grande Edward Norton nei panni di Pete Seeger. “Youtube è stato il mio principale vettore di indagine” ci ha svelato. “È veramente sorprendente quello che trovi su YouTube. Vent’anni fa mi ci sarebbe voluto un anno di lavoro per mettere insieme il materiale. Su YouTube trovi Pete Seeger che suona in un bar di Berlino nel 1973. Questo mi ha consentito di ingerirlo come voce, elaborarlo, creare la sua postura. Il regista ci ha detto: abbandonate la storia, quel mondo. È la storia di una persona giovane che incontra una persona che ammira. Sono i rapporti umani che dobbiamo raccontare, dimentichiamoci del resto. Questo ci ha liberato dal peso di una storia simile”.

Comunque da vedere

A Complete Unknown ha il pregio di non voler raccontare tutta la storia di Bob Dylan, ma uno scorcio, la prima parte, dalla nascita dell’artista fino alla svolta elettrica. Questa è sempre un’ottima cosa, perché permette di raccontare un tempo preciso, di concentrarsi su un aspetto. Pur senza raccontare tutta la sua vita, mostra gli albori di quell’irrequietezza che ha portato Dylan a cambiare continuamente, quel suo non essere mai accondiscendente e convenzionale. È un film che non ha molti guizzi a livello di regia, e le immagini non riescono a replicare a loro modo la genialità di Dylan (Io non sono qui, di Todd Haynes, lo faceva eccome). Ha però il pregio di raccontare una storia diversa da tutti gli altri biopic musicali, basati sullo schema ascesa-caduta-risalita e sui fantasmi e le dipendenze. È comunque un film da vedere. Perché quando senti quelle canzoni, poi, non ce n’è per nessuno.