Oggi parliamo di direzione creativa con Cristina D’Anna e Antonio Marchio, dallo scorso aprile in Media.Monks. Bene, entriamo subito nel merito. Cosa significa oggi avere le redini della creatività, insomma essere a capo della direzione creativa?
In un’epoca in cui le persone hanno perso fiducia nelle istituzioni e guardano quindi ai brand per trovare risposte e soluzioni, essere a capo della direzione creativa è una grossa responsabilità, che determina come e soprattutto cosa comunicheranno alcuni grandi brand, come quelli che ha Media.Monks nel proprio portfolio, i cui messaggi arrivano ogni giorno a milioni di italiani.
Cos’è cambiato rispetto a quando avete iniziato e da quando siete parte di Media.Monks?
Entrambi abbiamo iniziato a lavorare in pubblicità a cavallo fra il 2007 e il 2008. Ai tempi c’era più tempo per fare tutto, sia per pensare a una campagna di comunicazione sia tra una campagna e l’altra. Oggi ce n’è meno, perché il pubblico è diventato molto più vorace di contenuti, ai quali accede con incredibile facilità e velocità, e vuole tutto in “real time”.
Per la creatività quanto è importante il contesto, insomma quanto conta la realtà dove lavorate rispetto alla qualità dei progetti che producete?
È importante senza dubbio: la filosofia dell’agenzia condiziona molto la possibilità di ricercare l’eccellenza anche nella creatività o di fermarsi a un prodotto buono.
Quali sono le doti, le competenze, le visioni che fanno la differenza?
Tutto si può imparare e le competenze si possono acquisire, perfino il talento può essere appreso. L’importante è che ci siano sempre l’attenzione alle persone, la curiosità, la necessità di essere al passo coi tempi e il desiderio di non accontentarsi. Dobbiamo sempre provare a spingere di più per vedere se più in là c’è qualcosa di più interessante da scoprire.
Si discute sul ruolo dell’agenzia oggi. C’è chi la vede abdicare il suo ruolo di regista della marca per concentrarsi nella delivery di servizi, nei canali, e così perdere il trono. Voi che ne pensate?
Pensiamo che possa essere vero per alcune realtà, meno per altre. Forse è anche giusto e utile che esistano agenzie che siano solo “delivery di servizi”, perché le aziende hanno bisogno anche di loro, ma è fondamentale che alcune realtà non perdano il loro ruolo consulenziale. Noi puntiamo a lavorare in un’agenzia assolutamente al servizio del cliente, ma che sappia mantenere il punto, la propria autorevolezza e la propria visione.
Quanto conta la vostra personalità rispetto al lavoro che con il vostro team producete?
È inevitabile che conti molto, ma ogni lavoro che esce è il risultato di un incontro di personalità, quindi non solo quella dei direttori creativi, ma anche quella della coppia creativa che ha preso in carico il progetto. È bello poter dare il nostro contributo, il nostro “tocco” (siamo in Media.Monks anche per questo), ma è giusto lasciare spazio a tutto il reparto.
Le figure creative mai come oggi sono alla ribalta. Abbiamo archistar, chef star, nella moda poi… pure nelle aziende. E nel nostro mondo? Perché così poche le punte d’eccellenza che fanno parlare di loro anche extra settore e oltre i confini nazionali?
Perché ci hai citato tipologie di star o figure creative che sono esse stesse il brand, che devono sapersi vendere al grande pubblico per eccellere, pensiamo agli chef che vanno in TV. Nel nostro mondo le punte d’eccellenza ci sono eccome, ma in fondo il nostro lavoro è dietro le quinte: lavoriamo bene quando vendiamo un brand, non noi stessi.
E quando facciamo personal branding, anche quando riusciamo a superare i confini italiani, ci rivolgiamo sempre e comunque al nostro settore. Chissà forse un giorno una sfida tra pubblicitari in TV sarà interessante tanto quanto una sfida tra chef, ma probabilmente quel giorno è ancora molto lontano.
Quanto conta il team e qual è il vostro stile di direzione?
Il team conta moltissimo ed è qualcosa di composito. Non possiamo parlare di reparto creativo o di agenzia, se non consideriamo che è fatto di singoli individui con esigenze, talenti e personalità diverse. Noi, appena siamo arrivati, abbiamo puntato sull’ascolto: abbiamo voluto apprendere direttamente dai creativi, in colloqui one to one, impressioni, desideri e capacità. Cercheremo di comportarci come dei buoni coach, capaci di potenziare il talento dei singoli per il bene della squadra.
Cosa guardate nei giovani che vogliono lavorare con voi, su che cosa basate la scelta?
Cerchiamo impegno, curiosità, determinazione, un buon mix di razionalità e follia, ma cerchiamo anche di capire in fase di colloquio quanto un nuovo arrivo possa integrarsi nel nostro reparto creativo. La forza del reparto che abbiamo “ricevuto in dotazione” è lo spirito di squadra e di collaborazione, ragazzi che fanno di tutto per supportare l’intera agenzia. Un equilibrio, che non vogliamo rompere, ma che vogliamo consolidare con nuovi talenti.
Come vedete la comunicazione del futuro, i media, i modelli di business, le organizzazioni, cambiano la creatività?
Non sappiamo prevedere il futuro, ma possiamo dirti come vorremmo che fosse la comunicazione dei prossimi anni: più onesta e meno ambigua. Secondo noi chi comunica deve sempre avere un senso di responsabilità nei confronti dei destinatari dei messaggi. Il nostro impegno per il futuro va nella costruzione di una comunicazione guidata dalle buone idee e dalla trasparenza. E le idee buone per noi sono quelle che non dimenticano l’inclusione e i diritti sociali ancora da acquisire.
Il vostro è il lavoro più bello del mondo?
È un lavoro in cui non ci si annoia mai, che non smette di piacerci dopo quindici anni. Diventa il lavoro più bello del mondo quando con una campagna riusciamo a combinare gli interessi dei nostri clienti con una causa che ci sta davvero a cuore. Allora sì, il nostro è il lavoro più bello del mondo.
Creatività e direzione creativa, una questione globale, o il locale torna alla ribalta?
Come al solito basta trovare il giusto balance. Da una parte ci sono Paesi che da sempre sono di ispirazione per noi creativi italiani, pensiamo agli Stati Uniti, all’Argentina, o ad alcuni Paesi Europei o all’Asia, che da qualche anno decisamente dice la sua, ma dobbiamo essere capaci di far fruttare questa ispirazione per essere rilevante per il nostro mercato. E soprattutto non dobbiamo mai rinunciare alla possibilità di dire la nostra agli altri, di essere noi di ispirazione per i creativi fuori dai confini nazionali.
Per i giovani: meglio iniziare e crescere in una agenzia indipendente o in una multinazionale?
Anche qui non c’è una sola risposta esatta. Dalle grandi agenzie si imparano i flussi di lavoro, si ha la possibilità quasi quotidiana di avere un confronto con realtà internazionali ed è più facile trovarsi a lavorare con i migliori manager sul mercato, ma un’agenzia più piccola insegna a cavarsela, responsabilizza e i confini dei ruoli sono più labili. Forse il giusto compromesso è iniziare in una multinazionale, vederne un paio, e poi confrontarsi anche con un’agenzia indipendente durante la propria carriera. Poi sta anche al singolo capire quale realtà si sente meglio addosso.
Il lavoro di cui andate più fieri?
Tra quelli fatti insieme in coppia, sicuramente l’esperimento sociale Voce alle Gamer, cliente WINDTRE.
E per concludere, qual è il sogno che vorrete presto realizzare?
Vorremmo poter firmare una campagna di comunicazione che sia fortemente inclusiva e rilevante anche oltre i confini nazionali.